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a 91 anni è ancora in attività

Gioachino Motteran, il decano dei sacrestani: «Non credo che andrò in paradiso»

Da mezzo secolo è sacrista nella chiesa di San Paolo a Veronetta. Non si è mai sposato, ma è diventato amico di studentesse e vedove: «Universitari, va bene il lumino, ma pregate?»
Gioachino Motteran, 91 anni, sacrista nella chiesa di san paolo, davanti alla pala del Veronese (Marchiori)
Gioachino Motteran, 91 anni, sacrista nella chiesa di san paolo, davanti alla pala del Veronese (Marchiori)
Gioachino Motteran, 91 anni, sacrista nella chiesa di san paolo, davanti alla pala del Veronese (Marchiori)
Gioachino Motteran, 91 anni, sacrista nella chiesa di san paolo, davanti alla pala del Veronese (Marchiori)

Dopo aver congedato 14 fra parroci e curati, cinque dei quali già assurti alla vita eterna, Gioachino Motteran, 91 anni, decano dei sacristi della diocesi scaligera, commenta con un sorriso scaramantico l’omaggio finale tributatogli dal coro Voci del Baldo, diretto dal maestro Mirko Zamperini, nel concerto che la parrocchia di San Paolo in Campo Marzo gli ha dedicato un mese fa per il suo mezzo secolo d’ininterrotto servizio liturgico nella chiesa di Veronetta: «I gà pressia».

E subito intona con voce melodiosa, manco fosse il Kyrie eleison della Missa pro defunctis, il brano in questione, Signore delle cime di Bepi De Marzi: «Su nel paradiso, su nel paradiso, / lascialo andare per le tue montagne». La verità è che lui non ha nessuna intenzione di andare, e loro, il parroco don Nicola Agnoli e i fedeli, non lo lasciano andare. Quanto al Padreterno, «mi ghe digo sempre, ogni matina apena me sveio: Signor, se te vol tórme, mi son pronto».

Tutti i giorni, dal 1972, Motteran è in servizio nella chiesa sorta a partire dal 1188 su un tempio romanico e impreziosita dalla rinascimentale Cappella Marogna, dal nome della famiglia che commissionò gli affreschi a Paolo Farinati e la pala d’altare a Paolo Caliari, detto Il Veronese ma conosciuto dal popolo come El Sbrissia, per via della postura periclitante con cui lo scultore Romeo Cristani lo immortalò nella statua collocata dal 1910 nei vicini giardini della Giarina.

Avrebbe un vice, il buon Gioachino, che a questa veneranda età mostra un incedere esitante – fatto di passettini misurati che si tramutano in improvvise accelerazioni – epperò guida ancora la sua Fiat 500: «Mi è stata rinnovata la patente nel novembre 2021». Trattasi di Teodosio Grippo, che ha 93 anni, quindi due più del titolare, ma purtroppo si è fratturato un femore e da tempo è ospite della figlia a Isola della Scala.

Nato il 21 marzo 1931, Motteran arrivò a Verona da Mantova, dove i genitori avevano un negozio di calzature. Il padre Angelo era stato assunto come impiegato all’Arsenale, che in quegli anni subì le prime trasformazioni rispetto al progetto voluto dal feldmaresciallo Josef Radetzky. La madre Giuseppina Guelfi, casalinga, partorì quattro figli. L’ultimogenito, Gioachino, è anche l’ultimo vivente: «Mi era rimasto solo Giovanni, muratore in Germania, però mi ha lasciato 20 anni fa. S’era ammalato poco prima di sposarsi, poveretto. Mia sorella Angela aveva fatto la stessa fine: morta alla vigilia del matrimonio».

Nemmeno lui e neppure il quarto fratello, Giuseppe, hanno preso moglie. Destino beffardo per un uomo che fino a 15 anni fa abitava al numero 2/A di via Campofiore, in un caseggiato in stile razionalista fatto costruire dal Duce per le giovani coppie e perciò chiamato Nido d’amore. Oggi vive da solo in via Santa Marta.

Ha mai avuto una fidanzata?

Solo amiche. Ne ricordo almeno tre: Marisa, Carmen, Lucia. Ma non potevo sposarle per via della musica.

La musica?

(Strofina i polpastrelli di pollice e indice). Zanzan, schei. Le ragazze s’informavano sul mio stipendio e tagliavano l’angolo. Sa, a quel tempo, nel 1947, ero commesso da Dalle Aste, drogheria, colori e dolciumi, in via Garibaldi 5, angolo via San Mamaso. Paga da fame. Nel 1978 aprirono i primi supermercati, i clienti scarseggiavano. Fui licenziato.

La crisi viene da lontano.

Restai disoccupato. Mi mancavano cinque anni di marchette per andare in pensione. Un parrocchiano generoso, il dottor Giuliano Turata, che lavorava all’Aia e cantava nel coro della chiesa, mi fece assumere come operaio addetto alla lavorazione dei polli. Appena smesso il turno, venivo qui in chiesa. Grazie a Turata oggi prendo circa 1.000 euro di pensione al mese.

La casa dove abita è sua?

Dell’Agec. Due locali, bagno, cantina, 370 euro al mese.

Ha studiato?

Fino alla sesta elementare. Cominciai in via Paradiso e finii nelle scuole vicino alla chiesa di San Nicolò.

Le Gregorio Segala.

Mi sarebbe piaciuto proseguire negli studi, ma in casa mancavano questi. (Ripete lo strofinamento di pollice e indice).

Chi la reclutò come sacrista?

Don Bruno Bertuzzi, classe 1916, di Azzano, divenuto prete nel 1941 a Isola della Scala. Era parroco qui dal 1957.

Prete musicista. Scrisse un’opera, Da Peri a Batucian, mi pare.

El gà rasón, me l’ero dimenticato. Cantava e suonava l’armonium. E sa perché la scrisse? Era stato arciprete a Peri dal 1952 al 1957.

E lei sa che cos’è il Batucian?

No. Coss’èlo?

Un monte, che dà il nome al Ducato del Batucian e al carnevale che si tiene a Peri in quaresima.

Pensa! No ghè più religión.

Come mai scelse proprio lei?

A dire il vero, dopo che era andato in pensione Armando Coghi, il precedente sacrista, ne aveva già presi più d’uno. Ma duravano 20 giorni, forse perché volevano troppa musica... (Solito gesto). Oggidì i sacristi hanno uno stipendio regolare, così è stato deciso dai vescovi. Capii che don Bertuzzi mi puntava, per cui cercavo di scantonare. Finché no’l me gà incantonà: «Gioachino, ho proà tanti sagrestani, ma no i me comoda par gnènte. Póssito tèndarghe ti a la ciésa? Un’oréta al giorno».

Era fatta. Arruolato.

Potevo dirgli di no? Il curato don Vittorino Corsini m’insegnò che cosa dovevo fare. E da un’oretta passai alle 8 ore.

Noto che ricorda tutti i nomi dei suoi datori di lavoro.

Sì, e vorrei citare anche gli altri, perché hanno influito molto sulla mia vita: don Alfonso Lovato, don Francesco Armani, don Michele Paglialunga, don Pietro Bonadiman, don Ottavio Todeschini, don Adriano Cantamessa, don Tarcisio Bertucco, don Mariano Ambrosi, don Bruno Campara, don Romano Gaburro, don Giuseppe Mirandola, don Ferdinando Marcolungo. Fino all’ultimo, don Nicola Agnoli, che ha deciso di tenermi, bontà sua. Preparatissimo, nonostante i suoi 43 anni.

Ah sì?

Nato a Peschiera, prima messa a Sandrà nel 2004, ha studiato per 13 anni nello Studium biblicum franciscanum di Gerusalemme e poi ha conseguito il dottorato all’École biblique dei domenicani, sempre nella Città Santa. È amministratore parrocchiale e dirige anche il Centro di pastorale universitaria.

Il rettorato dell’ateneo è nel Palazzo Giuliari, qui di fronte.

Sì, ma non creda che gli studenti facciano a gara per venire in chiesa. Non sono come il professor Gino Barbieri, fondatore dell’Università di Verona, che era assiduo. Fino a una decina d’anni fa ce n’era un bel gruppo. Dopo la messa delle 8 si fermava per la recita delle lodi. Adesso, a quella delle 18.30 celebrata il martedì, saranno sì e no una ventina. Si mettono tutti nei banchi in fondo alla chiesa. Hanno paura ad avvicinarsi all’altare.

Come il pubblicano del Vangelo. I posti davanti sono per i farisei.

Vengono ad accendere un lumino prima dell’esame. A qualche ragazza dicevo: va ben la candela, ma non serve a niente se non pregate e se non tornate a ringraziare dopo che l’avete superato. Qualcuna mi scrive ancora. Ce n’è una di Bolzano che non sa se sposarsi o se farsi suora. Le ho consigliato di parlarne con il suo padre spirituale.

Mi dicono che sa farsi voler bene, però ha un caratterino...

Sono un brontolone, vado su di giri in fretta. Mi piacciono le cose fatte bene. L’ho imparato in drogheria, dove venivano a servirsi marchesi, conti, medici, avvocati, ingegneri, monsignori, il fior fiore del centro storico. Qualcuno mi chiamava Dalle Aste, scambiandomi per il titolare.

Contro chi brontola?

Spiego con un esempio. A una messa alta (cantata, ndr), un mio collega voleva far tutto lui: andare a raccogliere le offerte e anche portare il turibolo. E io a dirgli: non ci riesci, non fai in tempo. Niente, quello s’incaponì. Risultato: il prete non poté incensare l’altare. M’infuriai con quel sacrista: guarda Nostro Signor, no le done! Non siamo in chiesa per mostrare di essere uno più bravo dell’altro. Adesso è arrivato Massimo Battiston. Ha 56 anni, prenderà il mio posto. El me par in gamba, ma el gà ancora tanto da imparar.

Che fa di preciso il sagrestano?

Tutto, tranne che suonare le campane, quelle sono elettrificate. Una volta arrivavo alle 7.30, facevo anche il chierichetto, tornavo nel pomeriggio e restavo fino alla messa delle 18.30. Ma poi mi sono preso il Covid. Un mese di ricovero al Policlinico e un altro di riabilitazione. Ho dovuto rallentare.

Non è stufo?

Sono stanco, non stufo. Cammino male, ma il mio lavoro di sagrestano continua a piacermi. Però non va fatto a la vaca schèo. Tante bambole vengono ancora a trovarmi. Eh, se sapesse che cosa mi è successo cinque anni fa... Ma non so se posso raccontarlo.

Che le è successo?

Stavo facendo le pulizie, entra una signora rimasta vedova da poco. Mi viene incontro, poggia per terra le borse della spesa e mi abbraccia. Mi stringeva forte. Ho dovuto staccarla con la forza: cossa fala?, ela mata? sémo in ciésa! E lei: ma lù l’è un bèl òmo, el andarìa ben par mi che son restà sola.

Un mestiere rischioso.

Nel 2016 vedo in chiesa un tizio che non mi piace. Allora m’inginocchio davanti alla statua di sant’Antonio. Lui caccia un paio di fedeli, poi mi si para davanti: «Basta pregare! Deve uscire subito». Voleva mano libera per rubare. Io replico: ma è pazzo?, io prego quanto voglio. A quel punto mi dà una sventola in pieno viso con il libro delle preghiere e scappa. Mamma mia che male! Sono andato nel bar qui di fronte, è arrivata la polizia, ha steso il verbale. Però non ho perso neppure una goccia di sangue dal naso.

San Paolo la assiste.

Un’altra volta apro la chiesa e trovo un barbone che si sta rivestendo nella cappella del Santissimo. Aveva passato lì la notte. Il parroco don Bertucco la sera prima, durante le prove del coro, s’era dimenticato di chiudere la porta della sacrestia. Ma la rabbia più grande l’ho provata 10 anni fa. Vidi il ladro che rubava un candelabro e non riuscii a bloccarlo. Era il quinto furto.

Chi le insegnò a pregare?

I miei genitori. Mi facevano ripetere le orazioni prima di mettermi a letto. Mio padre a tavola recitava sempre: «Signore, benedici il cibo che stiamo per prendere».

Le è mai capitato di dubitare dell’esistenza di Dio?

No. Però a volte mi pongo delle domande sul Vangelo, alle quali non so rispondere.

Per esempio?

«Lascia che i morti seppelliscano i morti». Che vorrà dirci Gesù con questa frase?

Si confessa spesso?

A Pasqua, a Nadal e ala morte del prinçipàl. (Ride). È il Papa, el prinçipàl. Ah, avrebbe dovuto vedere com’era piena la chiesa in occasione della confessione comunitaria e dell’assoluzione generale dopo il Covid. Lì mica dovevi raccontare i peccati al prete.

Ha conosciuto altri sacristi?

Un certo Botteon e un certo Zeminian. Il primo era piccoletto, ma con il bastone lungo della borsa per la questua arrivava dappertutto.

Com’era la vita a Veronetta a quel tempo?

Fantastica. Si andava d’amore e d’accordo. In via Campofiore d’estate c’erano le careghéte sulla strada, con le betòneghe (dal verbo betonegàr, frequentare chicchessia per il semplice piacere di chiacchierare, ndr) sedute a spettegolare, ma anche a recitare il rosario e a giocare a tombola.

E oggi, invece?

Trovo bicchieri e bottiglie vuote di vino e birra davanti alla porta della chiesa. I giovinastri di notte urinano sui muri.

Che cosa le piace di più del tempio in cui presta servizio?

La cappella del Santissimo, con la pala del Veronese che mostra sant’Antonio da Padova mentre presenta i due donatori Marogna alla Madonna e al Battista. Di fronte c’è la cappella con la tela di san Francesco di Paola, dipinta da Felice Brusasorzi, e con la statua del Curato d’Ars, al quale i miei erano molto devoti. La mamma mi raccontava che il 4 agosto veniva qui alla messa che si celebrava in suo onore alle 5 del mattino. Ho donato a don Agnoli una tela che ho ereditato dai genitori: è antica, raffigura don Giovanni Maria Vianney quando ancora non era stato proclamato santo. Adesso è appesa in sagrestia.

Che altro sa della chiesa?

Il primo registro dei battezzati risale al 1563, quello dei morti è del 1632. L’8 marzo 1945 fu distrutta per tre quarti da un bombardamento. Nel ricostruirla, sbagliarono le misure dell’ingresso: troppo alto. Così le canne dell’organo dovettero essere collocate nelle pareti laterali.

Che doti deve avere un sacrista?

Serietà, zelo, gentilezza. In drogheria i clienti mi avevano ribattezzato «il commesso del sorriso». Era stato Angelo Dalle Aste a insegnarmelo: «No sta a servirli imusonà!».

Chi ha organizzato il concerto per il suo cinquantesimo?

Federica Avesani. Insegna religione a Parona. È diplomata in chitarra. Abita a Montorio ma spesso viene a messa a San Paolo. L’ho conosciuta, siamo diventati amici.

Crede che andrà in paradiso?

No, perché la porta è stretta.

Ma come se lo immagina?

Oh, Dio! Se gode la vista de Nostro Signor. No se suda mìa, no gh’è pensieri, no gh’è da metar su la pignata, no se crìa co la moiér, no ghe da nàr in farmacia a tor le supòste e compagnìa bela. Un paradiso, insomma. 

Stefano Lorenzetto

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