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Il paradosso (apparente) del Veneto

L'EDITORIALE / Se oggi Kunt sbarcasse in Veneto...

Le riflessioni sui riflessi regionali delle elezioni politiche del 25 settembre
Giorgia Meloni al Vinitaly 2022
Giorgia Meloni al Vinitaly 2022
Giorgia Meloni al Vinitaly 2022
Giorgia Meloni al Vinitaly 2022

Se oggi Kunt, il marziano di Flaiano, sbarcasse nel Veneto terrigno, dopo un viaggio tra la prima e la seconda repubblica, sarebbe un po’ difficile spiegargli cosa è accaduto con queste elezioni. Come mai quella che un tempo veniva definita la regione «bianca», per l’assoluta prevalenza della Dc, e poi diventata sempre più verde nel suo doroleghismo, oggi è uscita dalle urne come una nuova prateria di destra-centro più che di centro-destra.

Sembra in effetti un paradosso, a cinque anni dal voto plebiscitario per il referendum autonomista di Zaia, che il medesimo serbatoio elettorale alimenti la corsa di un partito più «statalista» che guarda al presidenzialismo prima che al regionalismo differenziato. Lo è nel momento in cui questo stesso «popolo» che ha scelto una coalizione a trazione Meloni è il medesimo che si è sempre contraddistinto antropologicamente per il suo tratto quasi anarchico nei confronti di un potere centrale a cui si affida in un algoritmo prevalente della credibilità a quella che si prepara ad essere la prima donna presidente del Consiglio nella storia della Repubblica. Punto di caduta di una campagna elettorale che ha registrato uno dei picchi più alti della leaderizzazione della politica.

Se poi restringiamo il campo alle rive dell’ Adige, la sorprendente vittoria del centrosinistra conquistata appena tre mesi fa da Damiano Tommasi sembra porsi oggi in contraddizione apparente con il voto per le politiche, come se fosse già preistoria. Contraddizione, quest’ultima, che conferma da un lato il harakiri ancora caldo del centrodestra (in cui Flavio Tosi ha condotto la sua partita) e dall’altro che i percorsi tra amministrative ed elezioni nazionali seguono logiche e orientamenti completamente diversi.

Anche se il valore assoluto non sembra subire scostamenti sostanziali, la somma algebrica delle liste in prove elettorali disomogenee non è confrontabile. Ma il dato di fatto su cui puntare un faro è inconfutabile: da domani la cintura parlamentare che dovrebbe garantire un collegamento con Roma è nella sua quasi totalità di colore politico avverso a quello del Comune scaligero. Azzerata la rappresentanza dem. Prevarrà un gioco di sistema o ideologico?

Ritorniamo all’origine del nuovo corso. Mettendo in fila una serie di domande che ci portano a ritroso in queste ultime settimane, possiamo in qualche modo dare alcune risposte che si muovono su un doppio registro tra il futuro governo e il Nordest. La prima risiede in quello che abbiamo chiamato il fattore credibilità. È evidente che la linea dritta di Giorgia Meloni abbia convinto maggiormente il popolo delle partite Iva, rispetto agli slalom di Salvini, anche in ordine alla caduta di Draghi e soprattutto dopo, in particolare in relazione alla prudenza sul tema dei conti pubblici, terra di nessuno in tempo di campagna elettorale. Inoltre, come sostiene il politologo Feltrin, chissà cosa sarebbe accaduto in proiezione teorica se a candidarsi fosse stato Luca Zaia. Il sospetto del fuoco amico è un’ombra che resterà nella definizione successiva di una resa dei conti.

La risposta a questa domanda resta sottotraccia nel solco che si aprirà da qui ai prossimi mesi all’interno della Lega. E lungo questa traccia si misureranno i passi più o meno in superficie dei governatori oltre i primi fuochi di ribellione veneta già esplosi. Se il Pd ha sbagliato le parole chiave e la strategia rimanendo imprigionato nel vecchio schema polarizzante del «o noi o loro», anche il Carroccio non ha intercettato i veri temi nuovi, giocando spesso in seconda battuta rispetto a FdI in quella che possiamo definire una delle campagne elettorali più contraddittorie del nostro Paese.

 

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Ma c’è un altro solco che rischia di formarsi, lentamente, erodendo le fondamenta di un futuro governo che nascerà su una base numerica sulla carta molto solida. La competizione interna tra i leader della coalizione, se pensiamo a quanto storicamente nella strategia ex padana la politica dei «due forni» sia uno schema che in momenti difficili in qualche modo ha garantito al Carroccio una base di consensi sul territorio. E considerate le sfide cruciali che attendono misure, compattezza di decisione, visione non legata al piccolo cabotaggio, riforme non più rinviabili, sarebbe un ulteriore schiaffo alla credibilità in questo caso del Paese, inspiegabile dopo l’uscita di Draghi.

In uno Stato come il nostro segnato dall’instabilità, che ha già avuto in vent’anni 11 premier diversi (in Francia 4, 5 nel Regno Unito, 3 in Germania), questa svolta politica alle urne deve diventare un test per la maturità politica non più procrastinabile. Dove i partiti sono chiamati a fare i conti con se stessi. Fratelli d’Italia dovrà dimostrare di essere un partito per «l’interesse nazionale» a cominciare dalle mosse che dovrà condurre in politica estera: primo vero banco di prova internazionale.

La collocazione dell’Italia non è in discussione, ma il modo in cui si sta in Europa è un capitolo assolutamente aperto. La Lega, il suo «ritiro» numerico e geografico da partito con una ragione sociale nazionale certamente costituirà una base per un ritorno più identitario al Nord. E in Veneto in particolare dovrà recuperare terreno nel percorso in salita verso le Regionali dove ora si collocherebbe in posizione gregaria.

Forza Italia cercherà di ritagliarsi un ruolo di garante al centro, sulla base di numeri che gli garantiscono però un peso relativo per essere ago della bilancia nella maggioranza. Il Pd, schiacciato dall’esperienza dei governi tecnici compreso l’ultimo, con un leader attaccato un po’ da tutti, non solo dagli ex alleati di Azione e Italia Viva, deve ritrovare un’ambizione governativa più pronunciata che reale, troppo dilaniata nell’erosione del campo largo. Quanto al Terzo Polo può veramente in futuro aspirare ad essere il partito delle èlite e surfare nelle acque di quel ceto medio mobilitato da Macron in Francia? Se la politica è l’arte del «dopo», non ci vorrà molto per capire quanto il cammino non sia solo un assemblaggio aritmetico.

E infine, i Cinque Stelle e il risultato che ridà corpo a un populismo che sembrava completamente svuotato. Preoccupa lo spettro di un’Italia divisa in due dalla linea del Reddito di Cittadinanza. Nella prospettiva di un autunno dalla potenziale conflittualità sociale, scatenare sui sussidi, in nome di una cortina di ferro della protezione sociale, un’ulteriore guerra tra «i poveri» rischia di aggravare un quadro ancora più difficilmente componibile.

 

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In uno scenario politico più generale in cui il dialogo tra i partiti e chi produce, le imprese, è frammentato. In campagna elettorale ridotto alla sola seppur drammatica guerra sul prezzo del gas. Troppo poco per il partito del Pil che chiede l’attuazione dei piani nazionali di ripresa e resilienza, continuamente rimessi in discussione, e risposte vere per l’industria al tempo di una globalizzazione che le trincee geopolitiche rischiano ulteriormente di restringere.

Alla classe parlamentare che siederà alle Camere con una maggioranza definita in un inedito assetto quadripolare e al nuovo governo che nascerà il Paese si attende non solo l’onestà delle competenze, ma anche la credibilità e la coerenza nelle scelte dopo un tempo di contorsioni che ha allontanato i cittadini dai destini della propria rappresentanza, come dimostra l’assordante astensionismo di questa tornata. Con una buona parte di opinione pubblica che ancora adesso non trova ragioni nella nascita e nella caduta repentina dei governi, nella creazione e lacerazione di alleanze.

Un po’ come nel romanzo «Lo straniero» di Albert Camus, dove l’insipido antieroe Meursault uccide senza motivo un passante sulla spiaggia di Algeri quasi per caso, per il caldo, per una sensazione generale di insofferenza. In uno spazio delle grandi idee collettive desolatamente arido il dibattito pubblico è stato avvelenato probabilmente da tanti Meursault. Il punto di partenza di questo voto deve essere anche quello di ridare una nuova consapevolezza alla politica contro la deresponsabilizzazione dilagante, partendo proprio dai partiti, con regole di governance e principi di etica pubblica e di buon funzionamento nei confronti della propria comunità di riferimento. Una messa a terra che viene prima di qualsiasi riforma scritta nel programma. Una sfida sociale e intellettuale, oltre qualsiasi nuova alchimia istituzionale.

Massimo Mamoli
Direttore de L'Arena

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