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L'intervista

Damiano Modena: «Il cardinal Martini moriva: poggiai la mia fronte sulla sua e...»

L'intervista al prete veronese che accompagnò fino alla morte il teologo che fu arcivescovo di Milano

«Ohi, sventura, sventura, sventura!». Il cardinale Carlo Maria Martini si lasciava sempre sfuggire questa esclamazione quando incappava in una contrarietà. Quel pomeriggio aveva premuto chissà quale combinazione di tasti. Due giorni di fatica, passati curvo sul computer, erano andati in fumo. La provvidenza volle che accanto a sé avesse un prete veronese, don Damiano Modena. «Riuscii a recuperargli tre quarti del testo. Mi ringraziò, felice come un bambino».
Pochi mesi prima, nel luglio del 2009, passavano insieme le vacanze nella Val Formazza, al confine fra Piemonte e Svizzera. Al termine della loro ultima passeggiata serale, l'ex arcivescovo di Milano, colpito 13 anni prima dal morbo di Parkinson, aveva chiesto a bruciapelo a don Modena: «Te la sentiresti di accompagnarmi fino alla morte?». La risposta fu: «Padre, se pensa che io possa essere la persona giusta, sì, anche oltre!».


Ricorda il sacerdote: «Alla domanda di sua eminenza mi fermai impietrito in mezzo alla strada. Ma non ero stupito: chi un giorno diventerà gesuita comincia a pensare alla morte già a 14 anni». Con lo slancio dei suoi 40 (ne compirà 54 il 17 ottobre), il presbitero veronese accettò di seguire il grande biblista anche nella morte: «I miei genitori manco sapevano chi fosse». E così è stato, in qualche modo, perché dal 28 settembre 2009 al 31 agosto 2012, quando il porporato si spense, rimase sempre al suo fianco.

Colui che avrebbe potuto diventare papa al posto di Benedetto XVI lo presentava a tutti così, con affetto: «Questo è don Damiano, il nostro pagliaccio». Ben sapendo che il giovane confratello era molto di più. Il bastone della sua vecchiaia da malato cronico. Il segretario fidato. L'autista. Il chierichetto nella messa celebrata in camera. Il badante che lo sollevava dal letto al mattino e lo aiutava a coricarsi la sera. L'inserviente che lo assisteva durante la doccia e lo vestiva. L'infermiere che gli posizionava l'Urocontrol, un catetere esterno applicato a chi non può più alzarsi in piedi.

«Per sollevarlo dalla poltrona, avevo escogitato una tecnica che stupì il chirurgo Ignazio Marino. L'ex sindaco di Roma in nessun ospedale aveva mai visto un infermiere che appoggia le sue ginocchia contro quelle del paziente e lo riporta nella stazione eretta». Da uomo di studi, il cardinale Martini non aveva alcuna simpatia per la tv. «Lo convinsi ad accettarne una in camera. La mattina, appena sveglio, dopo aver ingoiato la prima pastiglia di dopamina e ascoltato a tutto volume Mozart che gli dava l'energia per ricominciare, guardava Heidi, il cartone animato. Un pomeriggio vedemmo insieme Batman. Era stupefatto: "Incredibile, mai visto evoluzioni simili, neppure al circo"». Don Modena è nato a Bussolengo. Suo papà Luciano, un rappresentante di suole e pellami originario di Tombetta, sposò una ragazza del paese, Maria Rosa Mazzi.

La coppia oggi abita a Villafranca. Hanno altri due figli, Samuele e Valeriano, nati rispettivamente 7 e 14 anni dopo Damiano. Il primogenito cominciò a studiare come odontotecnico all'istituto Buonarroti di Verona. Conseguito il diploma ad Alessandria, entrò nel seminario minore della città piemontese, per poi trasferirsi a Napoli, alla Facoltà teologica dell'Italia meridionale. Fu ordinato prete nella diocesi di Vallo della Lucania il 13 agosto 1994 e mandato a Laurino (Salerno). Si assentò 35 mesi per assistere Martini. Dal 2016 è parroco di Ogliastro Cilento, Eredita e Finocchito.

Ha dei bravi fedeli?
Gli europei che vanno a messa la domenica sono da 2 a 5 su 10, mi pare. Da noi siamo al 60 per cento. Posso dirlo con certezza perché una delle parrocchie conta 100 abitanti e la chiesa ha 60 posti, tutti pieni.

Come conobbe Martini?
Ho sempre avuto il dono di sentirmi amato da Dio. A 7 anni passavo per pazzo perché andavo a messa alle 6 del mattino. In chiesa a Bussolengo trovavo solo il parroco e quattro vecchiette. Fissavo il crocifisso, mi pareva che mi abbracciasse. Il mio preside a Napoli era Bruno Forte, oggi arcivescovo di Chieti-Vasto. Fu lui a portarmi dal cardinale. Erano amici, si davano del tu.

Il vostro primo incontro?
Ariccia, 2003, casa dei gesuiti. Andai con Forte a presentargli la tesi che gli avevo dedicato. Per scriverla, lessi 130 libri su di lui, ma già allora ne erano stati pubblicati oltre 800.

Tre li ha firmati lei. L'ultimo è Il silenzio della Parola.
Oggi sono diventati più di 1.200. Davanti a sua eminenza caddi in ginocchio. «Che fai? Resta su! Siamo amici», mi prese per un braccio. Sfogliò la tesi: «Vedo cose su di me che non mi piacciono». Trattenevo il respiro. Cercò nell'indice gli argomenti e lesse le relative pagine. Osservò che mancava il suo pensiero sulla giustizia. Mi chiese di aggiungere un capitolo.

Qual era questo pensiero?
Il padre aveva scritto Non è giustizia. Chi giudica chi giudica? Quanto va aiutato chi sbaglia? Aveva un'idea biblica del diritto: Dio dimentica il peccato e salva il peccatore. «Non sono degno di un lavoro così grande», concluse dopo aver esaminato le 350 pagine.

Un notevole apprezzamento.
Anche se mi consentì di laurearmi con 110 e lode, alla morte del padre volevo bruciarla. Pensai: è tutta paglia, questa tesi non serve a nulla. Nel congedarmi, Martini mi chiese se fossi mai stato a Gerusalemme. No, risposi. «Male. Ogni cristiano almeno una volta nella vita deve andarci in pellegrinaggio. Vienimi a trovare per Pasqua».

A 75 anni aveva lasciato la guida della diocesi di Milano e si era ritirato nella Città Santa.
Ogni tre mesi tornava in Italia, stava per qualche settimana ad Ariccia e subito ritornava nel luogo della Passione di Gesù. Andai a trovarlo in Palestina tre volte. Viveva nel Pontificio istituto biblico di Gerusalemme. Io biascicavo un po' d'inglese. Lui celebrava messa in quella lingua e mi faceva da interprete. Ma parlava anche latino, ebraico, greco, aramaico, francese, tedesco, spagnolo, portoghese e non so quanti altri idiomi. «Circa una dozzina», minimizzava il padre. Credo che fossero molti di più. L'umiltà era il suo segno distintivo. Cercavo di rendermi utile come muratore.

Ma non è odontotecnico?
Appunto, sono esperto di amalgama e gesso, quindi mi misi a imboiaccare le piastrelle della sua vetusta cameretta. Erano sconnesse, si muovevano. Un parkinsoniano dal passo esitante avrebbe potuto inciamparvi. Misi pure i maniglioni anticaduta nel bagno.

Andava a trovarlo anche nei periodi in cui tornava in Italia?
Certo. Con la mia Ford Escort lo portai da Ariccia a Chieti, e ritorno, quando monsignor Forte fece l'ingresso in diocesi. In auto mi sembrò pensieroso: «Il vescovo Bruno vorrebbe che dicessi qualcosa. Tu che mi consigli?». Allungai la mano, dal sedile posteriore afferrai la Bibbia e gliela posi in grembo, dicendogli: lei sa, padre, che qui trova tutte le risposte. Rise: «Ma è un libro grosso, dove cerco?». Replicai: il maestro è lei, io mi concentrerei sulla Prima o sulla Seconda Lettera di Paolo a Timoteo. E così fece. Era questa la sua grandezza: l'uomo Martini superava il biblista Martini, sempre chino sui libri.

Ma lei che cosa aveva di tanto speciale ai suoi occhi?
Non ho mai osato chiederglielo. Molti altri lo domandavano a lui. E il cardinale dava a tutti la medesima risposta: «L'ho scelto tra mille!».

Non si sentiva inadeguato?
Eccome, moltissimo. La notte dopo avergli giurato di rimanere con lui anche oltre la morte, se fosse stato necessario, non chiusi occhio. Mi sentivo un inetto. La mattina dopo glielo confidai: padre, uno studioso della Bibbia non può trovare conforto in un pretino che sa solo di teologia morale, dopo un po' si stuferà a parlarmi di cose che non capisco, non sarò mai uno stimolo per lei. Risposta: «Non preoccuparti. Con i miei stimoli me la vedo io. Tu aiutami e basta». I primi tre mesi al suo servizio nell'Aloisianum di Gallarate furono terribili.

Per quale motivo?
Dovevo assisterlo solo al risveglio e all'atto di coricarsi. Per il resto, stavo tutto il giorno chiuso in una stanza di 5 metri quadrati, con l'orecchio teso. Unica compagnia, le sigarette. Ancor oggi fumo quasi un pacchetto di Philip Morris super lights al giorno. Me ne lamentai con lui: sa, padre, da bambino ero molto bravo, poi in seminario ho imparato tante cose brutte, da prete mi sono definitivamente rovinato, ma la fase peggiore della mia vita è senz'altro qui con lei. «Non si direbbe», mi rincuorò, e sganasciava. Quant'era bello vederlo ridere! Poi aggiunse, serio: «Porta pazienza, resisti. Presto avrò molto bisogno di te».

E così fu.
A Pasqua del 2010, dopo un'occlusione intestinale durata alcuni giorni, perse la voce. L'uomo della Parola diventò muto. Una tragedia. Pensai che sarebbe morto presto. Invece restò con noi per più di due anni. Imparai a interpretarne il linguaggio labiale. Cominciò gli esercizi di logopedia, che però lo estenuavano: «Aaa, caaasa, ooo, cooosa...». Un giorno perse le staffe: «Tu devi impegnarti! Tu devi aiutarmi!». Ma con gli occhi chiedeva: «Perché sto ancora qui, se non posso più parlare?».

Soffriva molto?
Siccome le proteine contrastano la dopamina, che è l'unica cura contro il Parkinson, i medici gliele tolsero, obbligandolo a una dieta ferrea: né carne, né formaggi, né uova. Solo pasta al pomodoro. Una penitenza per un uomo che, pur mangiando pochissimo, adorava le bistecche.

L'avrà vista come un carceriere.
Solo una volta si arrabbiò con me. Fu quando il neurologo Gianni Pezzoli, un luminare nella cura del Parkinson, gli sospese la dopamina, scelta obbligata per evitare un'overdose. Andò in crisi d'astinenza. Mi afferrò per il colletto: «Sei tu, sei tu che non mi dai le medicine!». Andai a prendere le scatole di Madopar: ecco qua, padre, prenda tutte le capsule che vuole. Abbassò lo sguardo e si scusò.

Sarà stato umiliante, per un principe della Chiesa, doversi mostrare in tutta la sua fragilità.
No, perché mi sforzavo di assomigliargli. La malattia gli faceva perdere la presa sugli oggetti. Gli sfuggì di mano un bicchiere, per lui fu un dramma. A mia volta ne mollai per terra un altro, che andò in mille pezzi. «Ma tu sei matto!», sbottò. Allora gli raccontai del detto «Veronesi tuti mati». Credo che ne avesse avuto già prova frequentando i suoi amici don Antonio Mazzi e don Luigi Maria Verzé.

Era il suo confessore?
Mi confessò soltanto due volte. Mi sembrava eccessivo caricarlo anche del peso delle mie colpe.

Quale peccato considerava più veniale che mortale?
Per lui erano tutti veniali, penso. Del resto, Gesù stesso nel Vangelo dice che solo il peccato contro lo Spirito Santo non sarà perdonato in eterno, ed è il rifiuto cosciente del perdono. Il padre non giudicava mai. Un giorno gli parlai di un confratello che ne aveva combinate di tutti i colori. Commentò: «Soggetto interessante». Ricordo che presentammo un suo libro alla Pontificia Università Gregoriana di Roma. Alla fine prese la parola: «Avete parlato della faccia luminosa della luna. Io pensavo alla faccia oscura della luna».

Qual era il suo carisma?
L'ascolto. Accoglieva chiunque con questa frase: «Mi dica, di che ha bisogno, che cosa posso fare per lei?».

Era sereno?
Sì, specie quando lo mettevo a letto. Una sera gli chiesi: padre, ma esiste un momento della vita in cui avremo tregua? Lui, che teneva sempre le mani incrociate sopra le coperte, alzò l'indice, fece segno di no e sentenziò: «Mai». Scoppiammo a ridere.

Come sopraggiunse la fine?
Il lunedì lo fotografammo in piedi, allegro. Il venerdì era già morto. Lui temeva di finire soffocato, come capita ai parkinsoniani. O di cadere per terra, rompersi il femore e consumarsi nel letto. E io: ma padre, non ricorda come la Scrittura parla del Nazareno sul Golgota? «Non gli sarà spezzato alcun osso». Infatti Martini non subì mai fratture. Il giovedì smise di mangiare. Sospirò: «Non ce la faccio più. Lasciatemi dormire».

Furono le ultime parole?
Sì. Appoggiai la mia fronte sulla sua e gli sussurrai: padre, mi passa un po' dei suoi file? Ma subito la discostai: mi dispiace, padre, ma non è entrato niente, la mia testa è troppo piccola. Lui scosse il capo, come per dire: «Sei il solito imbecille». Gli avevo strappato l'ultimo sorriso.

Che altro ricorda di quel 31 agosto di dieci anni fa?
Le nuvole nere, la pioggia battente. E un vento fortissimo che ululava dalle fessure delle finestre ed entrava in camera. Martini fondava sulla fede o sul ragionamento la sua speranza nella risurrezione?Sulla Scrittura ragionata. Sei mesi prima di morire ci disse, celebrando la messa: «Se anche nell'aldilà non trovassi nulla, sarei ugualmente felice di essere stato qui con voi».

Va a trovarlo, qualche volta?
Torno a Milano apposta per sostare sulla sua tomba in Duomo, ai piedi del crocifisso che san Carlo Borromeo portò in processione contro la peste nel 1576. Vorrei parlargli di tante cose. Ma mi ritrovo con la testa vuota. Allora gli dico solo: grazie. .

Stefano Lorenzetto

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