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Il racconto del giornalista

Dalla Crimea a Verona: «Torturato dagli agenti segreti russi. Mi credevano una spia dell’Europa»

Pavel Broska Semchuk il giornalista di Crimea24 ora è a Verona
Pavel Broska Semchuk il giornalista di Crimea24 ora è a Verona
Pavel Broska Semchuk il giornalista di Crimea24 ora è a Verona
Pavel Broska Semchuk il giornalista di Crimea24 ora è a Verona

I suoi guai sono iniziati dopo la pubblicazione di un articolo sul giornale online del suo Paese, la Crimea. Pavel Broska Semchuk, redattore di Crimea24, in pochi giorni è diventato un bersaglio, rapito dagli uomini dei servizi segreti russi, imprigionato e torturato perché ritenuto una spia europea.

Poi la fuga attraverso il corridoio creato dalle Camere penali del diritto europeo e internazionale che passa da Istanbul e Roma fino a Verona.

Ora è qui, protetto in casa di amici in un Comune della provincia che resta misterioso, e nei prossimi giorni la sua intenzione, come spiega l’avvocato Alexandro Tirelli, presidente dell’associazione che riunisce i penalisti europei, «è chiedere alle autorità italiane asilo politico. Non è fuori pericolo così come non lo sono la moglie e la figlia, rimaste in Russia e che stiamo cercando di far arrivare utilizzando il medesimo corridoio. Ma anche se è lontano da Mosca, Pavel è ancora in pericolo».

Giornalista da anni per un quotidiano online, la sua «colpa» è stata quella di aver rivelato che un carico di un milione mascherine destinato all’Italia nel marzo 2020, a inizio pandemia, in realtà non arrivò mai. Avrebbero dovuto essere spedite da una associazione culturale di Sebastopoli e dai veterani della flotta del Mar Nero ma secondo Semchuk il carico era una sorta di cavallo di Troia: accettando l’aiuto della Crimea l’Italia si sarebbe trovata in difficoltà con gli alleati all’interno della Nato poiché l’Unione europea aveva già attuato una serie di sanzioni contro Mosca come conseguenza dell’annessione della Crimea nel 2014.

Semchuk cercò di far luce sull’intera vicenda, emerse che la direttrice del centro per la cultura e la lingua italiana di Sebastopoli, Anna Kaskova, si era offerta di inviare i presidi che non arrivarono mai a Napoli e ipotizzò che dietro vi fosse non tanto uno scopo umanitario quanto un tentativo di lucrare sull’emergenza. E iniziarono i problemi.

Gli fecero cancellare il pezzo dal sito e poi gli ordinarono di licenziarsi. Una notte gli agenti dei servizi andarono a casa sua, misero sottosopra l’appartamento convinto che lavorasse per l’Europa. Lo credettero una spia perché non era in linea con quanto stabilito dal governo russo, lo caricarono in auto, portato in una stanza nella quale, oltre ad interrogarlo per ore, ogni tanto qualcuno entrava e lo picchiava senza pietà. Non confessò nulla perché nulla aveva da confessare, aveva fatto il suo lavoro da giornalista investigativo e dopo tre giorni lo lasciarono per strada, malconcio ma vivo, intimandogli di non raccontare nulla perché in ogni caso lo avrebbero trovato.

Il 24 febbraio capì che doveva andarsene e al tempo stesso doveva tacere perché temeva per l’incolumità di moglie e figlia, che erano in Russia (e che dovrebbero raggiungerlo a breve in Italia). Come assicura il legale non chiede nulla, se ne è andato perché ogni tanto riceveva una chiamata in cui gli dicevano di stare tranquillo, ha lasciato il suo Paese per poter essere libero di scrivere ogni cosa, dando voce anche ai dissidenti russi piuttosto che a coloro che, come lui, vogliono semplicemente poter esprimere il proprio pensiero: in Russia, relativamente all’Ucraina, la parola «guerra» non può essere pronunciata, si può solo parlare di «missione speciale».

Fabiana Marcolini

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