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Ciclisti tra passione e paura «In strada è una guerra e i giovani si allontanano»

Servirebbe rispetto. «Reciproco, da parte di automobilisti e ciclisti». Servirebbero piste dedicate «non strisce segnate con la vernice e condivise con i pedoni». Servirebbe «civiltà». Servirebbero «modifiche incisive al Codice della Strada, con obbligo di osservanza del metro e mezzo di distanza da chi pedala». Servirebbe «pazienza, sempre buon senso». E tutto ciò cozza con la realtà, la morte di un campione e 103 vittime finora in Italia in questo 2022 (non inclusi i feriti o i deceduti successivamente), tra chi per «mobilità dolce» o passione sceglie i pedali. Servirebbe una via d’uscita dalla paura. Perché se Enrico Mantovanelli, presidente della Autozai - Petrucci Contri, la storica società veronese in cui Davide Rebellin assaggiò le prime vittorie, ammette: «Il giorno in cui mio figlio Fabio decise di smettere di correre fui sollevato». E se un decano del ciclismo come Giuseppe Degani, 75 anni, ex presidente provinciale della Federazione ciclistica italiana (1989-2000), professore e promotore della passione per il pedale tra i giovani, incalza: «Oggi esco ancora in bicicletta, ma ho paura». Allora c’è poco di che aggiungere: significa che qualcosa davvero non va. Disattenzione Premessa necessaria: «Anche tra chi pedala ci sono i “pecoroni“, quelli che viaggiano in gruppo, come nulla fosse». «Ma il vero problema sta nella disattenzione: la gente guida e fa altro, soprattutto guarda il telefono», incalza Mantovanelli. «Servirebbe mettere mano al Codice, imporre l’obbligo della “fila indiana“ e delle luci, della distanza di sicurezza che un’auto dovrebbe mantenere in sorpasso. Rispetto in una parola. Perché magari il ciclista “sta sulle scatole“ ma in un incidente si perdono una o più vite e se ne rovinano definitivamente altre». Aiuterebbero «circuiti protetti e velodromi. Da anni insisto perché la Federazione avvii un confronto su questo tema». Ma il ciclismo è fatto di strada, asfalto. «E se c’è di che avere paura nel mandare i figli a scuola in bicicletta figurarsi come si può sentire un direttore sportivo nel portare i “suoi ragazzi“ in allenamento. Li mandiamo con l’ammiraglia al seguito, le luci... ma la paura resta». Perché di vittime se ne sono contate già troppe. Le ciclabili? «Guardiamo alla Germania, al Belgio, dove i percorsi sono davvero riservati a chi pedala, non in condivisione con i pedoni, separati dal resto del traffico. Tutto è ben diverso dallo stendere qualche striscia con la vernice». Il presidente della Autozai - Petrucci Contri riporta poi il problema al centro: «Serve testa, rispetto. Altrimenti continueremo ad avere paura, anche nel mandare i figli a scuola in bici». Paura I timori pesano. «I ragazzi vengono indirizzati verso specialità come la Bmx: più abilità che resistenza, in un ambiente protetto, su circuiti chiusi. Molti, in realtà, provano la via del ciclismo ma tanti lasciano, il ricambio è continuo», spiega Giuseppe Degani. L’indisciplina è patrimonio diffuso, anche tra gli sportivi: «Se pedalo con le cuffiette per la musica non ascolto la strada, non sentirò mai un’auto o il camion in arrivo», ammette l’ex presidente provinciale. «Ma servirebbe una vera mutazione culturale. In Svizzera, intorno ai laghi, il percorso, prima che automobilistico, è ciclabile, disegnato “ad hoc“. Ci sarebbe una “mentalità“ da acquisire, dall’Europa, valida per chi pedala per spostarsi, come buona pratica di salute come per amatori e professionisti». Ma sembra fantascienza in un’Italia che predica la «mobilità dolce» in un contesto di «traffico caotico e bestiale». Rischio La realtà resta quella che è. L’allenamento quotidiano per i ragazzi dai 14 anni in su, quello che permette di gareggiare, e raggiungere così l’efficienza massima, macinando chilometri e salite vere, in questi anni è diventato pericoloso, un azzardo. Spiega Andrea Riccadonna, presidente della società Barlottini Ekoi Body Energie di Villafranca, allenatore e padre di due figli giovanissimi che praticano il ciclismo: «I nostri giovanissimi, dai sette ai 13 anni, come avviene per la maggior parte delle società veronesi, si allenano in circuiti protetti e gareggiano in assoluta sicurezza». Ma osserva: «Per i più grandi, esordienti e allievi, ragazzi dai 13 ai 15 anni, i quali per allenarsi devono percorrere tratti di una cinquantina di chilometri, il discorso cambia. Le strade asfaltate sono molto trafficate e la prima regola è adottare precauzioni». Ovvero: scegliere tragitti poco frequentati, «dribblando» la massa di auto e mezzi pesanti. «Ci alleniamo nella zona delle colline moreniche, intorno a Custoza e Sommacampagna, con una macchina di assistenza sempre al seguito e un paio di allenatori che pedalano in gruppo con i ragazzi in fila indiana», spiega Riccadonna. «In un anno i ragazzini tra gare e allenamenti percorrono quattro, cinque mila chilometri e finora non abbiamo mai avuto incidenti di rilievo. Qualche caduta, niente di più». Rispetto Prudenza e attenzione, dunque. Per le società di ciclismo veronesi ormai lo sport agonistico è un gioco «in difesa». Claudio Cordioli, tecnico regionale e direttore sportivo degli allievi del Team Petrucci, conferma: la sicurezza dei ragazzi viene prima di ogni altra cosa. «C’è alla base una questione di cultura e rispetto verso l’elemento più debole della strada», spiega. «Certo», ammette, «anche i ciclisti devono fare la loro parte. Abbiamo in tutto una trentina di ragazzi/e che si allenano quasi tutti i giorni. Anche per noi le direttrici preferite sono tra Custoza, Sommacampagna e Santa Lucia ai Monti. Un comprensorio con percorsi caratterizzati da continui cambiamenti di pendenza, che mettono alla prova. E soprattutto poco trafficate». Visti i tempi un elemento decisivo per gli allenamenti. «Le strade in questi anni sono diventate molto più pericolose», aggiunge Cordioli. «Non solo perché ci sono più auto e camion, ma anche per la presenza di dossi dissuasori, rotatorie e condizioni di base del tracciato spesso degradate. E ne va dell’incolumità e sicurezza dei ragazzi». Legge «Purtroppo è diventata quasi una guerra», aggiunge. «Gli automobilisti vedono i giovani, che si allenano con la macchina al seguito, quasi come un fastidio. Spesso i ragazzi pagano anche il comportamento scorretto di alcuni ciclisti “della domenica”, visti da chi sta al volante come “nemici“». I «pecoroni», ciarlieri e disordinati, come li definisce il patron dell’Autozai. Una cattiva pubblicità per l’intero movimento del ciclismo. «Sarebbe indispensabile ormai regolamentare per legge la distanza del metro e mezzo delle auto dalle biciclette», incalza Cordioli: «Una questione di incolumità per chi pedala. Ed una misura che scongiurerebbe molti incidenti, anche gravi, per situazioni che sarebbe semplice evitare». Il ciclista indipendente, rassegnato e sgrezzato dalle esperienze, disegna ormai le proprie uscite di allenamento con il massimo della prudenza, cercando di salvare la passione e la pelle. Ma il movimento agonistico, ribadisce Enrico Mantovanelli, «rischia di pagare un prezzo fin troppo alto ad una situazione di fatto, con l’allontanamento di tanti ragazzi che pure amano questo sport». Si sfornavano fuoriclasse a raffica nel Veronese, e Davide Rebellin proprio di queste strade era un figlio, di quelli che danno soddisfazioni ed orgoglio. Campioni «Ora è tutto più complicato», riflette con amarezza Giuseppe Degani. E regala il ricordo di un vincitore «dall’umiltà disarmante, pronto a dialogare senza filtri con i miei ragazzi, a tratti quasi timido e sempre corretto. Eppure era uno che aveva vinto corse di prestigio, s’era guadagnato la fama». Uno sportivo, campione, d’altri tempi, trionfatore alla «Liegi-Bastogne-Liegi», alla «Freccia Vallone», Maglia Rosa in una tappa del Giro d’Italia, secondo nella Coppa del Mondo del 2004. Finito travolto da un camion, come nel 2017 Michele Scarponi, l’«Aquila di Filotrano», il vincitore del Giro 2011. E tanti altri, non titolari di coppe e medaglie. Ogni volta si piange, ci si interroga, poi si dimentica. In un Paese che affolla le strade per la Corsa Rosa, rincorre e abbraccia chi suda per vincere. Poi, tornato al volante, lo declassa ad «ostacolo» quando si allena per l’impresa. Su strade disegnate per le auto, non certo per allevare campioni della fatica.•. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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