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L'intervista/1

Antonio Fedrigoni: «I 50 anni dal primo volo con l'aereo che mi costruii nel salotto di casa»

«Ho ritrovato la tomba di mio padre, ucciso nella ritirata del Don. "Prenditi cura della mamma", le sue ultime parole. Era la figlia di Baistrocchi, che predisse la fine del Duce
Antonio Fedrigoni oggi (a destra) e accanto al Luton Major che costruì nel salotto di casa
Antonio Fedrigoni oggi (a destra) e accanto al Luton Major che costruì nel salotto di casa
Antonio Fedrigoni oggi (a destra) e accanto al Luton Major che costruì nel salotto di casa
Antonio Fedrigoni oggi (a destra) e accanto al Luton Major che costruì nel salotto di casa

Antonio Fedrigoni, omonimo del capostipite della dinastia cartaria veronese, è l’unico italiano che mezzo secolo fa si costruì un aereo nel salotto di casa, un attico con mansarda al quinto piano di un condominio di Corte Farina (ci abita tuttora). Ma è anche l’inventore della Giulia, una macchina per il caffè prodotta 60 anni orsono in un solo esemplare, che può essere considerata la progenitrice della Nespresso.

Allora viveva in Campo San Polo, a Venezia, e la mattina non riusciva mai a svegliarsi in tempo per seguire le lezioni a Ca’ Foscari, l’università dove si sarebbe laureato in economia discostandosi dalla profezia del padre Gualtiero («diventerai un bravo ingegnere meccanico»). Così assemblò la caffettiera-sveglia, che all’ora prefissata lanciava un fischio e cominciava a distillare un espresso fumante nella tazzina, accendendo persino la radio.

Nato il 23 settembre 1935 a Londra, dove il genitore dirigeva uno degli uffici più importanti della società Italia di Navigazione (quella del transatlantico Andrea Doria, affondato nel 1956), Fedrigoni visse per due anni nella capitale britannica e poi a Milano. «Quando papà, capitano del 73° Gruppo di artiglieria, partì con l’Armir, l’Armata italiana in Russia, venimmo ad abitare presso la nonna paterna, Cesira, al numero 41 di corso Porta Nuova». Da allora non ha più lasciato Verona. Padre e figlio parlavano fra loro in inglese. Antonio, che all’epoca aveva 6 anni, trattiene scolpite nella memoria le parole ascoltate la mattina del 23 luglio 1942, a Bosco Chiesanuova, dove la famiglia era sfollata.

«A papà avevano concesso una licenza prima di spedirlo al fronte. Entrò nella mia camera alle 7. Io lo aspettavo in pigiama seduto sul letto. Mi disse: “Now you are the man of the family. Look after your mother and hold her up, when she will be sad. Watch always over your little sister”. Ora sei tu l’uomo di famiglia. Prenditi cura di tua madre e sorreggila quando sarà triste. Veglia sempresulla tua sorellina».

La mamma si chiamava Adriana Baistrocchi. È scomparsa nel 2009. Era la figlia del generale Federico Baistrocchi, il capo di stato maggiore del Regio Esercito che nel 1933, quando Benito Mussolini assunse anche il ruolo di ministro della Guerra, divenne sottosegretario del Duce. Oltre al primogenito Antonio, Adriana diede alla luce Laura e Gian Federico, morto nel 1985.

«Per molti anni la mamma attese invano il ritorno di nostro padre dalla Russia. Si erano sposati nel 1934. Passava le giornate a Balconi di Pescantina, dove le tradotte ferroviarie dalla Germania scaricavano reduci di guerra provenienti dai fronti d’Europa ed ex internatisopravvissuti ai lager nazisti. Ogni volta tornava a casa distrutta».

Le speranze si spensero definitivamente nel 1954, quando giunsero dalla Siberia gli ultimi rari scampati. Adriana Baistrocchi ritrovò la perduta serenità con il secondo marito, Nino Cenni, maestro di vita e di scuola (insegnava alle elementari Segala), impareggiabile conoscitore della storia di Verona, firma dell’Arena.

Non fu lo stesso per Antonio Fedrigoni. Come Giovanna (Sophia Loren), che nel filmI girasolidi Vittorio De Sica si reca in Russia alla ricerca del suo Antonio (Marcello Mastroianni) e lo rintraccia conuna nuova famiglia in Ucraina, Fedrigoni decise d’indagare. «Nino, più che un patrigno, è stato per me un grande amico. Ma io adoravo mio padre e non ho avuto pace fino a quando non sono riuscito a ritrovare il luogo dove venne ucciso durante laritirata del Don, aindividuare il cimitero in cui fu sepolto, a piantare una croce sulla terra che fu bagnata dal suo sangue, con una targhetta che recala data di nascita, 15 novembre 1908, e quella della morte, 19 dicembre 1942, avvenuta appena 148 giorni dopo il nostrocommiato a Bosco Chiesanuova».

Quando riuscì a dipanare il mistero sulla sorte di suo padre?

Tutto cominciò nel momento in cui mia madre ricevette il diario che papà aveva tenuto durante la Campagna di Russia. Ce lo consegnò il maresciallo Cobianchi, un veronese che gli aveva fatto un po’ da attendente. Mamma si rifiutò di aprirlo. Lo ripose nella cassetta di sicurezza. Disse che lo avrebbe letto insieme a suo marito il giorno in cui fosse tornatoa casa. Alla fine si decise a consegnarlo a mia sorella Laura, che decifrò la difficile calligrafia di nostro padre e lo fece battere a macchina. Si tratta di un documento straordinario. Fra qualche mese sarà pubblicato da Giovanni Avesani, l’editore di Sona per il quale ho già scritto qualche libro. È ricco di osservazioni umane e di dettagli sui movimenti delle truppe italiane, dai quali risalii agli ultimigiorni di mio padre.

In che modo?

Nel 2003 mi aggregai a un viaggio dell’Associazione nazionale alpini, sezione di Verona. Destinazione Rossosch, quasi sul confine con l’Ucraina. Le tracce di mio padre si perdevano da quelle parti. Mi staccai dal gruppo e cominciai le ricerche con l’aiuto del professor Alim Morozov, fondatore e direttore del Museo storico di Rossosch.

E che cosa scoprì?

Che mio padre il 19 dicembre 1942 viaggiava con il capitano Bruno Ferrarini, originario di Isola della Scala, e il proprio autista. Furono tutti e tre ammazzati da un cecchino russo dopo che la loro macchina era rimasta in panne. Trovai una donna che fu testimone dell’uccisione. Mi venne persino consegnato un parafango arrugginito della vettura, una Balilla Torpedo in uso al Regio Esercito, forato da un proiettile. Io credevo che papà disponesse di una Fiat 1100 riservata agli ufficiali.

Come localizzò il posto esatto della sepoltura? 

Tornai nel 2016, da solo. Sempre assistito dal professor Morozov, arrivai in un minuscolo villaggio, Kulicin. Nel camposanto ortodosso c’erano tante croci dipinte di azzurro. I contadini m’indicarono una zona, coperta dalla steppa, dove nel 1942 furono sepolti tre soldati italiani insieme ad altri quattro militari, forse croati o rumeni. Ebbi la certezza che mio padre, Ferrarini e l’ignoto autista giacevano lì sotto. Più tardi piantai una croce con due targhe con i nomi, una per papà e una per il capitano di Isola della Scala, nel punto in cui caddero.

Epilogo terribile ma in qualche modo consolatorio.

Sì. In un villaggio poco distante, Makaroff, non potei invece fare nulla per rincuorare Irina, rimasta sola con un bimbo piccolo. Il marito e gli altri due figli erano stati uccisi in guerra dagli ucraini nel vicino Donbass. «Aspetto che arrivino i russi», mi disse. Il che è accaduto un anno fa.

Fece in tempo a conoscere suo nonno, Federico Baistrocchi?

Certo. Morì nel 1947, quando io avevo 12 anni. Di origine parmense, nel 1931 era stato inviato aVerona quale comandante del 3° Corpo d’armata, con sede a Palazzo Carli, dove aveva avuto il suo quartier generale il feldmaresciallo Josef Radetzky. Fu qui che sua figlia conobbe il mio futuro padre. Alle loro nozze partecipò Amedeo di Savoia, duca d’Aosta, poi viceré d’Etiopia. Il nonno fu processato dal tribunale militare di Roma e assolto con formula piena nel settembre 1946.

Processato per i suoi trascorsi fascisti, immagino.

Dai quali si era riscattato con largo anticipo. Già deputato del Regno d’Italia dal 1924 al 1939, era caduto in disgrazia dopo che il 19 settembre 1936 aveva inviato a Mussolini una lettera molto dura, in cui gli scriveva: «La guerra che prevedete sarà lunga, assai lunga». Criticando il conflitto «lampo cui fanno cenno gli strateghi da strapazzo», prevedeva: «Nella guerra mondiale, che troverà l’universo in due campi opposti per una lotta senza quartiere e perciò lunga lunghissima a ultimo sangue, trionferà chi ha saputo e, soprattutto, potuto meglio prepararsi, resistere, alimentarsi». E concludeva: «Caso contrario, Duce, l’Impero che avete creato lo perderete».

Uno stratega finissimo.

Per me era un nonno affettuoso. Finita la guerra, veniva spesso a riposarsi nella nostra casa di campagna ad Arbizzano, dove ancor oggi coltivo vigne e ulivi. Andavamo insieme a piedi fino a Parona per comprare le carrube.

Lei quale ruolo ha avuto nella cartiera fondata nel 1888 dal suo avo Giuseppe Antonio Fedrigoni?

Ci entrai dopo essermi laureato a Venezia con il mio maestro Carlo Maria Cipolla, l’autore delle Leggi fondamentali della stupidità umana. La tesi in storia economica, intitolata Industria veneta della carta dalla seconda dominazione austriaca all’Unità, ricevette il premio Gino Luzzato. Ero un po’ in ritardo con gli studi, a causa di un incidente di moto che per due anni mi fece perdere la memoria.

Chissà dove sarebbe arrivato se fosse rimasta integra.

Ho vissuto tutta l’epopea delle Cartiere Fedrigoni, che mio zio Gianfranco aveva allargato fino al Sudafrica, aprendo uno stabilimento a Città del Capo, compresa l’acquisizione della Fabriano da parte di mio cugino Alessandro. Dal 1964 al 1965 lavorai nella cartiera di Verona; dal 1965 al 1967 nella cartiera del Varone; dal 1967 al 1970 nella cartiera di Arco. Poi cedetti, con i miei fratelli, le azioni Fedrigoni e Varone agli zii Gianfranco e Renzo in cambio della proprietà di Cartaffini, che produce stoviglie in melamina e che poi fu venduta a un’azienda di Fossano, dove rimasi finoal 2001, anno della pensione.

Nel frattempo costruiva aerei in casa.

Uno solo, il Luton Major. Sei anni di fatiche. Non ero ancorasposato. Le ali,lunghe 5 metri, nacquero in questo salotto. Furono calate in strada con una gru, dopo aver smontato una finestra.La fusoliera la assemblai in un garage affittato a Veronetta, in via San Vitale, che confinava con la sede della Cgil. Mentre di sera lavoravo, sentivo i sindacalisti che parlavano della Fedrigoni.

Ma come le venne in mente?

Avevo preso il brevetto di volo aBoscomantico. Scrissia un’azienda produttrice di aerei per sapere quanto costava un velivolo. Purtroppo la lettera di risposta finì per sbaglio sulla scrivania di mio zio Gianfranco, che s’inalberò: «Ma sito mato? Qua né io né i miei fratelli Renzo e Arrigo abbiamo mai pensatodi farci la barca e tu vuoi comprarti addirittura un aereo? Pensa a lavorare!». Pertanto conclusi che, se non potevo permettermelo, me lo sarei costruito da solo.

E come diavolo fece?

L’amico Giorgio Benciolini mi disse che avrei trovato il materiale e i piani di costruzione in Inghilterra, nel Surrey. Partii per Crangley con la mia Austin Healey Sprite decapottabile del 1961. Ce l’ho ancora. È targata VR 93971. L’ho usata anche cinque giorni fa. Nel 1967 con questa vettura d’epoca sono arrivato fino a Capo Nord, per vedere il sole di mezzanotte e l’aurora boreale.

Il decollo da dove avvenne?

Da Ecuvillens, in Svizzera, esattamente 50 anni fa. Era il 2 febbraio 1973. L’aereo l’ho sempre tenuto fra Boscomantico, Lugano e Locarno. Il volo più lungo fu da quest’ultima località a Cranfield, nord di Londra, oltre 1.000 chilometri, superando le Alpi e il Canale della Manica.

A quale velocità di crociera?

Circa 140 chilometri orari.

Usava l’aereo solo per queste imprese temerarie?

No, anche per andare a Padova a prelevare la mia fidanzata, Anna Damiani. Ci siamo sposati nel 1975. Abbiamo due figlie, Clarissa, avvocata, ed Emanuela, ingegnera, che purtroppo non abitano a Verona, quindi i nostri sei nipoti sono tutti lontani.

Il Luton Major che fine ha fatto?

Nel 2009 l’ho donato alla contessa Maria Fede Caproni e da allora è esposto nel Museo dell’aeronautica Gianni Caproni di Trento. D’altronde la storia della nostra dinastia cartaria cominciò in quella regione nel 1724 con Giuseppe Fedrigoni.

Come spiega il fatto che molte famiglie veronesi abbiano perso il controllo dei loro imperi? Non solo i Fedrigoni, che hanno ceduto ilcapitale al fondo americanoBainCapital.Penso ai Mondadori, ai Galtarossa, ai Tiberghien, ai Consolaro, ai Trezza di Musella, ai Bertani, ai Farina.

La concorrenza, caro mio. Quando nacquero le cartiere di Verona, mica c’erano Binda o Favini a farci ombra. In Cartaffini mi salvai assumendo solo operai cinesi, gli unici che venivano a implorarmi di lasciarli lavorare anche quando c’erano le assemblee sindacali. E poi è venuta meno la propensione al rischio d’impresa. I nostri padri avevano il coraggio di giocarsi tutto.

 

 

Stefano Lorenzetto

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