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L’ANALISI

Ansie, incertezze, amore e rabbia: i muri di Verona raccontano le inquietudini dei ragazzi / LE FOTO

SCRITTE SUI MURI A VERONA (FOTO MARCHIORI)

«Muri puliti, popoli muti». Recita così, scritto su chissà quanti metri di cemento in tutta Italia, un vecchio detto. Ma quella era espressione di libertà, di ribellione. Un urlo contro la politica, forse. Non che oggi quegli stessi slogan «sbombolettati» non ci siano più, sia chiaro. Ma, al netto delle volgarità (purtroppo inevitabili), agli inni d’amore per la propria squadra, frasi, parole e simboli (come la Scala per l’Hellas Verona), le grida-spray raccontano anche tanto altro. I muri della città possono essere cartine tornasole di disagio. Oppure canti strazianti per esprimere i propri sentimenti, qualsiasi essi siano. Richieste eclatanti d’amore. Un modo per essere notati o per chiedere semplicemente, si fa per dire, aiuto.

 

I muri di Verona

Certo, Verona non è Trastevere dove quasi ogni centimetro di muro è ricoperto da scritte o adesivi. Ma basta fare un giro, in certi luoghi a volte anche impensabili, e l’anima dei writer, di chi scrive con le bombolette, si nota. Eccome se si nota. Si tratta, come spiega lo psichiatra, responsabile del raggruppamento di psichiatria della casa di cura Villa Santa Chiara, Marco Bortolomasi, di un modo per attirare l’attenzione. «Oggi manca molto la capacità di saper ascoltare. Mancano», spiega lo specialista, «i luoghi per poter dire quanto si sta male e spesso anche la famiglia. Forse anche per questo c’è chi sceglie di scriverlo su un muro. Sono persone, ragazzi, che cercano di esprimersi in questo modo, di esprimere quello che hanno dentro anche in un modo clamoroso. Lo fanno senza farsi vedere, quindi di notte, ma in maniera eclatante per far vedere a più persone possibili cosa provano».

 

Le frasi

 Non si parla di murales, attenzione, di opere d’arte - qui le sensibilità sono diverse e contrastanti - o di disegni. Si scrive, si «sbomboletta», perché tutti possano vedere. Per raccontare il proprio disagio anche ai tempi dei social. D’altra parte una scritta sul muro resta, una storia su Instagram dura quindici secondi e solamente per ventiquattr’ore. Poi si perde, per sempre. Girando per Verona le frasi che si trovano sono le più disparate.

Da «Lavorare fa schifo», a metà tra l’ironia e un tragico destino, alle grida per i morti in carcere. Ma non solo. Anche la solitudine può essere urlata in silenzio «Se vivi fidandoti muori tradito», si legge. Oppure «Caro amico ti chiamo ma non rispondi», parafrasando una vecchia canzone. Così come le frasi contro, ma qui si torna indietro di qualche mese, il green pass. Immancabili quelle. Anche se non tutte sono negative se si tocca il tema pandemia. In zona San Zeno, infatti, campeggia la scritta «Tutti uniti contro il covid». Non mancano anche richieste a metà tra l’essere romantico e il disperato (d’amore, ovviamente). In città, infatti, da un po’ è impossibile non trovare questa: «Facciamo l’amore?». Lo si legge in vicolo cieco Chiavica, ma anche sulla scalinata per salire a Castel San Pietro. Così come le scritte filosofiche, sempre sulla stessa scalinata «Non faccio in tempo a cambiare che mi è cambiata la vita». Qui c’è pure la firma: Occhi.

Il muro diventa così diario di confidenze, amico fidato e megafono allo stesso tempo. Luogo a cui affidare il proprio malessere. Ma se le scritte raccontano il disagio, qual è l’origine? «Si urla la solitudine. La tecnologia poi», precisa Bortolomasi, «porta a non stare a contatto con le persone. Ce n’è molta e non si è più in grado di gestirla. Non siamo più capaci di capire che si possono vivere dei momenti da soli e questo ci fa paura. I social non aiutano anzi insegnano, erroneamente, che si possono raggiungere dei risultati immediati senza fare delle tappe necessarie nella vita e che riguardano il sacrificio. Ma per arrivare ad un risultato serve soffrire e questa, la sofferenza, non è accettata».

 

Cosa c'è dietro a tutto questo?

 Secondo lo psichiatra, però, alla base di tutto c’è un vuoto che ha diverse facce. Da una parte quello lasciato dai centri d’ascolto, di aggregazione e dall’altro la mancanza - in molti casi, ma non si può generalizzare - del sostegno della famiglia. E tutto questo provoca la necessità di trovare qualcosa che possa colmare quel vuoto: «Non trasmettiamo ai giovani l'educazione perché il nucleo familiare è in difficoltà per problemi di coppia o personali. C’è un vuoto spirituale molto profondo», sottolinea Bortolomasi. «Il linguaggio che i giovani ascoltano», continua, «sia dai media che dai social è molto violento e questo viene assorbito». Ne scaturisce anche una deriva che porta, nei casi più eclatanti, a commentare reati: «La criminalità, spesso, è purtroppo figlia del senso della famiglia che manca. Ci sono situazioni di difficoltà economica, parliamo di un effetto domino. Di figli che sono lasciati da soli o che fanno fatica ad integrarsi», conclude lo specialista.

Nicolò Vincenzi

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