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Intervista allo psichiatra veronese

Vittorino Andreoli: «Società in stato confusionale. E i virologi in tv fanno danni»

In Gran Guardia evento per i suoi 80 anni
Vittorino Andreoli (a destra) con il sindaco in Sala Arazzi
Vittorino Andreoli (a destra) con il sindaco in Sala Arazzi
Vittorino Andreoli (a destra) con il sindaco in Sala Arazzi
Vittorino Andreoli (a destra) con il sindaco in Sala Arazzi

Un compleanno rinviato. Il 19 aprile del 2020 Verona era in pieno «lockdown» mentre Vittorino Andreoli, psichiatra, scrittore e accademico nato a ridosso dell’Adige, compiva gli 80 anni. «Festa posticipata ma forse ora anche più significativa», spiega il sindaco, Federico Sboarina, annunciando la serata in Gran Guardia, il 10 novembre, alle 18, dedicata ad un interprete illustre della città. «Grande per meriti acquisiti sul campo e sempre equilibrato. Una persona di cui essere orgogliosi in questo tempo che premia i profeti con milioni di “like“ sui social media e tende ad ignorare le persone di solida formazione».

«Ormai, per me, sono quasi 82 anni», osserva ironico il professore, quasi a sottolineare il «tempo vuoto» imposto dalla pandemia. «Ma mi emoziona questo invito, perché mai mi sono voluto allontanare da questa città, dalle sue strade. Avrei potuto, era possibile ma non l’ho fatto, per scelta. Rimpiango, semmai, di non avere dato di più, forse per la mia tendenza innata a stare in disparte. Ma Verona è sempre stata, e rimane, il mio riferimento, la mia identità. E se c’è qualcosa», aggiunge, «che potrò fare anche ora, da “vecchio“ (parola sua, ndr) voglio farlo, a dispetto dell’età».

Non si sente un respiro mentre parla Andreoli. «È una questione di restituzione: si riceve e poi si restituisce, la città da lui e viceversa. In poche parole: questo è ciò che si definisce spirito di servizio», sintetizza il sindaco.

In Gran Guardia, prevedibilmente, andrà in scena una «lectio magistralis», sul bene e il male della società nell’Anno Domini 2021, da conservare negli annali. L’attualità, intanto, è lì, fuori dalla porta, con troppi interrogativi. E nessuna risposta facile.

 

Professore Andreoli, la chiamavano per i «Tg», perché una voce come la sua, nell’«infodemia» che ha segnato gli anni del Covid, poteva sicuramente fare comodo...

Non sono stato al gioco, anche per vocazione personale: amo il ritiro, di fronte a una società che parla decisamente troppo.

 

Davvero troppe parole? Che dire dei virologi da studio televisivo?

Hanno causato un danno enorme, di fatto uccidendo la speranza. E ancora continuano su questa strada, l’uno contro l’altro, tra tesi contrapposte. Mancano purtroppo persone in grado di dare vita ad un intervento coordinato, legato solamente alla scienza. Che non sarà perfetta ma resta comunque una verità controllabile. Oggi ci troviamo in uno stato confusionale generale, in cui si crea la scena ideale per il ruolo di attori e commedianti.

 

In una parola?

Ci sono stati avvoltoi: nel mondo dell’informazione e nella rincorsa al puro narcisismo. Per questo motivo mi sono tenuto alla larga da tanti inviti.

 

Tutti abbiamo pagato un prezzo a questa situazione, che ancora non sembra valutabile negli effetti a lungo termine...

Ammettiamo che il virus, almeno da noi, scompaia. Ma se così non fosse in Svizzera o qualsiasi altro Paese? Ci troviamo all’interno di una situazione definibile di “trauma cronico“, che ha colpito genitori, figli, istituzioni, la stessa Chiesa. E tuttora non sappiamo quale sarà l’esito. Non è come subire una frattura, puntuale e curabile. Chi scrive “Passata è la tempesta“ è fuori strada, perché gli effetti non sono, appunto, quelli di una ferita diretta, visibili e risolvibili immediatamente. Servirà tempo.

 

Un anno fa si diceva: «Ne usciremo migliori». Oggi, guardandosi attorno, la società sembra più arrabbiata e contrapposta che mai: «no vax» contro «pro vax» e via dicendo.

Sta prevalendo la “cultura del nemico“: io dico una cosa, l’altro mi studia e provoca per affermare il contrario. Sembra vengano annullate le capacità mentali, che si stia regredendo velocemente verso uno stato primordiale, di “uomo selvaggio“...

 

Una soluzione facile probabilmente non c’è. Ma una linea di condotta sarebbe ipotizzabile?

Dovremmo ripescare un pronome consueto, in uso nella nostra lingua, il “noi“: perché siamo fatti di piccole storie individuali, portatrici di pregi e difetti.

 

Ai nostri figli, dopo due anni decisamente sconvolgenti, cosa potremmo dire?

Qualcosa di semplice. Basterebbe ammettere: “In questo momento sono anch’io in difficoltà nel mio essere papà/mamma, però ti voglio bene. Bisognerebbe ripeterlo, perlomeno, una decina di volte ogni giorno... .

Paolo Mozzo

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