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Festa nazionale. Il discorso di Biguzzi

Sboarina: «Il 25 aprile appartiene a tutti» Centinaia in corteo

Festa nazionale
Il corteo per il 25 aprile (foto Marchiori)
Il corteo per il 25 aprile (foto Marchiori)
25 aprile LE IMMAGINI (foto Marchiori)

Fitto calendario di appuntamenti in città e provincia per il 25 aprile.

A Verona ricordo dei caduti per la Liberazione a Porto San Pancrazio e alle 11 in via Lazzaretto la benedizione della targa marmorea in ricordo dei caduti, mentre in centro si è snodato un lungo e affollato corteo (video) arrivato fino in piazza Viviani.

In Gran Guardia, dove c'è stato un momento di tensione con la contestazione agli esponenti della maggioranza presenti, ha parlato Stefano Biguzzi, presidente dell'Istituto veronese per la Storia della Resistenza: «Il 25 aprile va festeggiato perché è la data sulla quale si fondano la nostra costituzione e la nostra democrazia».

A seguire il sindaco Federico Sboarina ha detto che il 25 aprile «appartiene a tutti gli italiani e che, a 74 anni dalla fine della seconda guerra mondiale, non deve essere solo una mera ricorrenza formale, ne uno strumento divisivo ma un’opportunità per mettere in moto un autentico processo di pacificazione nazionale. Quando nel 1945 venne annunciata la fine della guerra, iniziò un nuovo cammino democratico, sul quale oggi abbiamo il dovere di lasciare anche le nostre orme. Ecco perché le contrapposizioni ideologiche di 74 anni fa oggi devono essere superate».

 

IL DISCORSO DI BIGUZZI (VIDEO BRUSATI)

 

IL DISCORSO INTEGRALE DI SBOARINA

Signore, signori, autorità. A tutti voi qui presenti rivolgo i saluti della città di Verona e il benvenuto alla cerimonia per il 74° anniversario della Liberazione. Un’occasione per riflettere sui valori fondanti della Patria e sull’identità della nostra Nazione. Un tempo per parlare di libertà, unità nazionale, giustizia e solidarietà civile. Una celebrazione, quella del 25 aprile, che appartiene a tutti gli italiani e che, a 74 anni dalla fine della seconda guerra mondiale, non deve essere solo una mera ricorrenza formale, ne uno strumento divisivo ma un’opportunità per mettere in moto un autentico processo di pacificazione nazionale. Quando nel 1945 venne annunciata la fine della guerra, iniziò un nuovo cammino democratico, sul quale oggi abbiamo il dovere di lasciare anche le nostre orme. Ecco perché le contrapposizioni ideologiche di 74 anni fa oggi devono essere superate. Questa è una giornata che serve a smuovere la coscienza collettiva e a costruire una democrazia sempre più solida. Senza dimenticare quanto successo, ma anzi conservando vivo il ricordo e la memoria storica, a monito di quella che fu una tragedia che non si deve ripetere mai più. Ma con lo sguardo proteso al futuro e alle nuove generazioni, affinché a loro giungano forti i valori di queste celebrazioni. È ai giovani, ai nostri figli e nipoti, che dobbiamo trasmettere non solo la conoscenza ma anche una coscienza capace di imparare dalla storia e di rifiutare la violenza, per promuovere la pace e la democrazia, che con fatica in passato sono state conquistate. A loro dobbiamo dire che anche oggi possono essere protagonisti di un percorso di unità, che veda al centro il bene comune e non i singoli interessi. Princìpi che fanno delle persone donne e uomini di valore. In grado di fare la differenza. E sono certo che gli interventi prima del presidente della Consulta giovanile e poi del professore Stefano Biguzzi, oratore ufficiale di questa giornata, sapranno sicuramente mettere in luce proprio questo. Una sorta di passaggio di consegne che non ha appartenenza politica. Oggi tutti ci dobbiamo riconoscere nei simboli della nostra patria: il tricolore e il canto degli italiani, per il quale tanti uomini e tante donne hanno dato la vita. Ma anche la Costituzione, che di quel 25 aprile 1945 è figlia, ed è proprio l’esempio e il simbolo tangibile di quella pacificazione e di quella unità nazionale che la giornata di oggi deve rappresentare. I nostri Padri Costituenti - provenienti da tradizioni, culture, componenti politiche molto diverse – ci hanno lasciato in eredità lo strumento supremo a cui tutte le leggi devono conformarsi. La Costituzione è anche il simbolo e l’insieme di regole per garantire una vera pacificazione che resti duratura nel tempo, oltre le ideologie e le diverse appartenenze. Non dimentichiamo mai la lezione che ci hanno dato, ci serve quotidianamente per costruire un futuro di pace e serenità per i nostri figli. Buona giornata

 

IL DISCORSO INTEGRALE DI BIGUZZI

25 APRILE 2019 Quattro anni fa, lavorando alla carta di Verona tra guerra e Resistenza uscita per il settantesimo della Liberazione, ci domandavamo con quale icona identificare la Resistenza. La risposta è venuta con grande naturalezza: il Tricolore. Perché niente meglio del tricolore poteva sintetizzare tutte le componenti che avevano concorso alla lotta di liberazione: militari, comunisti, socialisti, cattolici, partito d’Azione, monarchici, insieme a tanti altri italiani privi di inquadramento politico e ansiosi solo di difendere e liberare la Patria. Ma anche perché i valori di giustizia, libertà, uguaglianza e fraternità che ispirano la carta costituzionale dell’Italia democratica e repubblicana nata dalla Resistenza sono gli stessi professati dai padri della nostra Patria e dunque, di fatto, l’Italia del 25 aprile è il compimento di quanto intravisto e sognato dall’inizio del moto di liberazione e unificazione nazionale nel segno di un filo bianco rosso e verde che nell’arco di un secolo lega insieme Risorgimento, Grande Guerra, antifascismo e Resistenza.

Il 25 aprile è la festa più sacra del nostro calendario civile, quella senza la quale le altre o non esisterebbero o non avrebbero alcun senso. «Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione» scriveva Piero Calamandrei «andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità andate lì, perché lì è nata la nostra Costituzione». In questo senso il 25 aprile e la festa della Liberazione, nel suo venire più o meno celebrata, segnano una netta linea di demarcazione che consente di identificare con assoluta precisione il fascismo nelle sue moderne metamorfosi.

La festa, la celebrazione e la sua sacralità rischiano però di perdere senso se non si ancorano alla Storia e se dalla Storia non attingono forza per sfidare l’usura del tempo. Per questo è utile e necessario fermare alcuni punti: La Resistenza non inizia l’8 settembre del 1943. Inizia nei primissimi anni Venti quando il fascismo dà l’assalto alle istituzioni della democrazia parlamentare. È una guerra civile strisciante che farà più di 2000 morti. Case del popolo incendiate, spedizioni punitive, uso sistematico della violenza, dall’olio di ricino alle manganellate fino agli omicidi, progressiva compressione e negazione delle libertà e dei diritti fondamentali. È una Resistenza che comincia presto a contare i suoi martiri e che continuerà a farlo per un ventennio: dagli undici antifascisti prelevati e trucidati dalle squadracce torinesi tra il 18 e il 20 dicembre del 1922, a Giovanni Amendola, Giacomo Matteotti, Piero Gobetti, Don Giovanni Minzoni, Carlo e Nello Rosselli, e tanti altri ancora. Sono sconfitti gli uomini, non le idee, perché come avrebbe detto Matteotti con tragica e presaga consapevolezza «uccidete pure me, ma non ucciderete mai le idee che sono in me». La nascita del Regime istituzionalizza violenze, carcere, processi condotti dal Tribunale Speciale. L’unica via di fuga è l’esilio. È uno Stato totalitario che, è scomodo da ricordare ma va fatto, riesce a costruirsi una solida base di consenso. Un consenso sperperato piombando l’Italia in una guerra di aggressione non sentita, e combattuta al fianco del suo nemico storico. Nonostante il sacrificio di soldati che in condizioni di tragica inferiorità onoreranno comunque e con valore la loro divisa, la guerra è una catastrofe. Il regime in mezzo a inquietanti segni di cedimento come i grandi scioperi del marzo 1943, si sfalda e implode per una congiura di palazzo il 25 luglio di quello stesso anno; due settimane prima gli alleati erano sbarcati in Sicilia. Nessuna rappresaglia contro i fascisti. Anche questo è bene ricordarlo quando si vuole ridurre la Resistenza al «Sangue dei vinti». Nessuna rappresaglia ma solo una grande festa, quella che ha la sua più bella rappresentazione nella famosa pastasciutta offerta dai Fratelli Cervi, tutti e sette martiri della libertà di lì a qualche mese, ai contadini dei cascinali vicini.

 

L’8 settembre 1943 la festa si tramuta però in incubo. I tedeschi reagiscono all’armistizio completando senza colpo ferire un’occupazione che avevano abilmente iniziato subito dopo la caduta di Mussolini, complice la criminale inettitudine di Casa Savoia e delle gerarchie militari. Protetti dai tedeschi che instaurano un regime di terrore facendo terra bruciata dovunque si tenti di colpirli, i fascisti che alla caduta del Duce si erano miseramente e vilmente dileguati, rialzano la testa. Nascono il Partito Fascista repubblicano e il governo collaborazionista della Repubblica Sociale Italiana sotto la guida di un Mussolini ridotto a «fantoccio grottesco», come lui stesso si definirà. Milizie formate da vecchi squadristi e da ragazzini fanatici si scatenano nel segno della vendetta e della ferocia offrendosi con solerzia come braccio armato del nuovo ordine hitleriano rastrellando, torturando, uccidendo, contribuendo alla cattura e alla deportazione di ebrei e oppositori politici. «Era giunta l’ora di resistere, era giunta l’ora di essere uomini: di morire da uomini per vivere da uomini» (Calamandrei). E la Resistenza si organizza subito. Con i militari, in primo luogo, che a Cefalonia, nei Balcani, in Francia, alla difesa di Roma, alla caserma dell’Ottavo Artiglieria, poco lontano da qui, e in mille altri scontri in tutta Italia, abbozzano una reazione eroica quanto vana e subito soffocata nel sangue. I sopravvissuti, e gli sbandati abbandonati a sé stessi dopo l’armistizio che riescono a sfuggire la deportazione, si danno alla macchia e insieme agli antifascisti e ai tanti giovani che vogliono sottrarsi alla leva della Repubblica Sociale Italiana e al lavoro coatto nelle fabbriche tedesche, danno vita alle prime bande partigiane. Combattere per la libertà, questa è la parola d’ordine della Resistenza, combattere per riscattare la dignità del popolo italiano dimostrando la sua volontà di essere un popolo libero, degno di essere riammesso nella vita delle libere nazioni. Una Resistenza che è anche resistenza di civili inermi che cercano di sopravvivere, in una terra dilaniata dalla guerra, dalla fame dai bombardamenti e straziata da una serie infinita di stragi e rappresaglie. Boves, le Fosse Ardeatine, Sant’Anna di Stazzema, Marzabotto, ma anche la miriade di quelle meno note ma non meno sanguinose che costellano la ritirata dell’esercito tedesco fino ai primi giorni del maggio 1945, oltre 400 con 15.000 caduti tra partigiani, collaboratori della Resistenza, ebrei e comuni cittadini. E per restare alla fredda contabilità dei numeri, il 25 aprile è anche l’occasione per ricordare i 16.000 caduti e 21.000 feriti e mutilati della Resistenza italiana su poco più di 80.000 membri effettivi insieme agli oltre 30.000 deportati politici e razziali, senza contare i 613.000 internati militari che nei Lager tedeschi rifiutarono qualsiasi genere di collaborazione.

 

Verona, che sotto il profilo resistenziale ha un’immagine di sé a dir poco riduttiva, ai limiti della vera e propria rimozione, partecipò a queste vicende con oltre 400 caduti in azione o vittime di rappresaglie e con il sacrificio di oltre 250 deportati che non fecero ritorno dai campi di concentramento e di sterminio. È una città decorata di medaglia d’oro e che conta tredici medaglie d’oro, undici alla memoria, conferite a patrioti veronesi o che combatterono nelle file della resistenza veronese: Udino Bombieri e Raffaele Trevisan caduti nei giorni immediatamente successivi all’armistizio, Evelino Marcolini, incursore della Regia Marina che forzerà arditamente il porto di Genova caduto in mani tedesche, Alberto Andreani, Andrea Paglieri, Giovanni Duca e Ezio Rizzato, ufficiali entrati nella Resistenza per onorare, anche fino al sacrificio supremo, il loro giuramento, come il colonnello Giovanni Fincato, fulgida figura di eroe della Grande Guerra e martire della libertà, e poi i gappisti Lorenzo Fava e Danilo Preto, eroi dell’assalto agli Scalzi, il medico Gian Attilio Dalla Bona, catturato mentre si prodigava a curare alcuni compagni feriti, il comandante Luciano dal Cero, e Rita Rosani, la ragazza ebrea caduta a monte Comun mentre nel corso di un rastrellamento copriva insieme a un altro giovanissimo partigiano, Dino Degani, la ritirata della sua banda. I loro nomi e le loro storie oggi sono in pochi a conoscerli e a ricordarli e anche su questo il 25 aprile deve farci riflettere.

Verona è una città che il nove settembre 1943 assistette in Piazza delle Poste e alla caserma Campofiore al tentativo eroico di resistere all’occupazione tedesca; una città dove il comitato di liberazione nazionale si ricostituì più volte subendo arresti, deportazioni e supplizio, dove i GAP con l’assalto al carcere degli Scalzi e la liberazione di Giovanni Roveda misero a segno un’azione ineguagliata per ardimento, tutto questo in quella che di fatto era la capitale del fascismo repubblicano, là dove la RSI era nata e aveva celebrato con il processo di Verona il suo catartico rito di sangue; nella città che era sede del più alto comando delle polizie naziste in Italia e del centro di deportazione che da esse dipendeva. Città ma naturalmente anche provincia, con i CLN che anche lì si formarono pagando un altissimo prezzo di sangue, e con le brigate partigiane che sui monti e nelle pianure del veronese si organizzarono e operarono fronteggiando valorosamente la schiacciante superiorità delle forze nazifasciste.

 

Qual è stato il peso militare della Resistenza? La risposta viene dal rapporto che la commissione inglese presieduta dal colonnello Hewitt stilò al termine della guerra: «Senza le vittorie partigiane non ci sarebbe stata una vittoria alleata così rapida, così schiacciante, così poco dispendiosa». Dopodiché, con buona pace dei revisionisti e delle anime belle che a cadenza fissa ritengono di aver fatto una grande scoperta storiografica, è evidente che l’Italia è stata liberata dagli alleati, come la Francia, la Norvegia, il Belgio, l’Olanda, la Polonia, la Cecoslovacchia e le altre nazioni occupate dai tedeschi. Nessuna si è liberata da sola, sarebbe stato impossibile, ma questo non scalfisce in alcun modo la grandezza della Resistenza al nazifascismo che, condotta con disperato eroismo e a prezzo di terribili sacrifici, si pone come testimonianza di un popolo che si risveglia e che nella lotta per la libertà si riappropria della propria dignità e del proprio onore. Il 25 aprile è la festa più sacra, ma anche la più difficile perché comunque celebra la fine di una guerra civile. La memoria di quegli eventi non potrà mai essere condivisa ma condiviso può e deve essere quello che la Resistenza ha prodotto ovvero la Repubblica con le sue istituzioni democratiche. È un concetto che è reso bene da un dialogo tra due uomini politici collocati su posizioni antitetiche: Vittorio Foa, antifascista, sopravvissuto a nove durissimi anni di carcere, partigiano, padre costituente, figura di riferimento della sinistra, e Giorgio Pisanò, volontario della RSI storico esponente missino. Il dialogo risale al 1996, quando Luciano Violante aveva avviato il dibattito sulla pacificazione evocando con un’immagine a dir poco riduttiva i cosiddetti «ragazzi di Salò», quelli cioè che in buona fede, convinti di difendere l’onore d’Italia, avevano di fatto collaborato a un regime fondato su terrore, rappresaglie, stragi, torture, e deportazioni. A Pisanò che esortava a seguire quel percorso perché, in fin dei conti, sugli opposti fronti si era andati tutti a morire per la Patria, Foa aveva risposto: «No. Perché se aveste vinto voi io sarei ancora in prigione (in realtà, essendo di famiglia ebrea, sarebbe finito in un campo di sterminio); poiché abbiamo vinto noi, tu sei Senatore della Repubblica».

 

Parafrasando una famosa esortazione, il 25 aprile può essere infine l’occasione per affermare: «non chiederti cosa può fare la Resistenza per te, ma cosa puoi fare tu per la Resistenza». La Resistenza per noi ha già fatto tanto. Quello che possiamo fare noi, oggi, è custodire, difendere e tramandare la sua memoria, con un’azione tanto più necessaria di fronte al quotidiano proporsi di rigurgiti neofascisti troppo spesso e con troppa leggerezza tollerati o sottovalutati e anche di fronte a chi, nei modi più subdoli, lavora in parlamento e nelle piazze perché questa festa perda progressivamente di significato e, alla fine, non si celebri più. Ma quello che possiamo fare poi è anche cercare nella quotidianità delle nostre esistenze di onorare il sacrificio di chi ha combattuto ed è caduto per l’Italia e per la Libertà. Quel sacrificio che rivive nelle ultime parole scritte da tanti patrioti prima di affrontare il plotone d’esecuzione: Ivo Lambruschi, di Campegine, 19 anni, contadino: «Il tuo figlio è morto per la santa causa italiana». Rino Mandoli, di Genova, 31 anni, operaio meccanico, Medaglia d’argento al V.M.: «Ricordate che l’Italia sarà tanto più grande quanto più sangue il suo popolo verserà serenamente». Irma Marchiani, di Firenze, 33 anni, casalinga, medaglia d’oro al V.M.: «Ho sentito il richiamo della Patria per la quale ho combattuto, ora sono qui… fra poco non sarò più, muoio sicura di aver fatto quanto mi era possibile affinché la libertà trionfasse». Franco Balbis, di Torino, 32 anni, capitano di artiglieria, medaglia d’oro e d’argento al V. M.: «Possa il mio grido di «Viva l’Italia libera» sovrastare e smorzare il crepitio dei moschetti che mi daranno la morte; per il bene e per l’avvenire della nostra Patria e della nostra Bandiera, per le quali muoio felice!». Sergio Piombelli, di Genova Rivarolo, 18 anni, studente: «Muoio per voler bene all’Italia». Giancarlo Puecher Passavalli, di Milano, 20 anni, dottore in Legge, medaglia d’oro al V.M. (il padre Giorgio verrà deportato e morirà nel campo di Mauthausen): «Muoio per la mia patria. Ho sempre fatto il mio dovere di cittadino e di soldato … L’amavo troppo la mia Patria; non la tradite, e voi tutti giovani d’Italia seguite la mia via e avrete il compenso della vostra lotta ardua nel ricostruire una nuova unità nazionale». Rinaldo Simonetti, di San Colombano Certènoli, 18 anni, apprendista: «Muoio per la salvezza dell’Italia». Amerigo Duò, di Villanova Maltesana, 21 anni, meccanico: «Combattete per una idea sola: Italia Libera». Cesare Dattilo, di Cogoleto, 23 anni, operaio meccanico: «È il destino ingrato che ha voluto colpirmi. Ma tieni presente che questo destino colpisce solo ogni vero Italiano della nuova patria che risorge». Giordano Cavestro, di Parma, 18 anni, studente: «Io muoio, ma l’idea vivrà nel futuro, luminosa, grande e bella. La mia giovinezza è spezzata ma sono sicuro che servirà da esempio. Sui nostri corpi si farà il grande faro della libertà». Pietro Benedetti, di Atessa, 41 anni, ebanista: «Di fronte allo scempio della Patria, dei nostri focolari, delle nostre famiglie, io sentivo che era da codardi restare inerti e passivi. Ma forse con ciò calpestavo i miei doveri verso la famiglia? No, perché la causa che avevo sposata altro non era che quella dei nostri figli e delle nostre famiglie». Andrea Caslini, di Gorle, 23 anni, falegname: «Un saluto ancora, e che questo vi giunga in segno di vittoria e di libertà per tutti gli Italiani. W l’Italia martoriata che presto rifiorirà libera e indipendente». E Sabato Martelli Castaldi, di Cava dei Tirreni, 47 anni, Generale di brigata aerea. Medaglia d’oro al V.M. che scriveva sul muro della cella di Via Tasso dove era stato sottoposto a bestiali torture prima di venire trucidato insieme ad altri 334 prigionieri alle Fosse Ardeatine: «Quando il tuo corpo non sarà più, il tuo spirito sarà ancora più vivo nel ricordo di chi resta – Fa che possa essere sempre di esempio».

Queste parole, che ancora oggi si leggono sul muro di quella cella richiamano il monito che ci viene dai patrioti, dai partigiani e dalle partigiane caduti per la nostra libertà. È un imperativo etico che Piero Calamandrei, sommo cantore della Guerra di Liberazione, ha sintetizzato in un pensiero di straordinaria potenza ricordandoci che sta a noi onorare ogni giorno il 25 aprile: «Fare la celebrazione del passato, vuol dire guardare dentro di noi e fare il nostro esame di coscienza. In queste celebrazioni che noi facciamo della Resistenza, di fatti e di figure di quel tempo, noi ci illudiamo di esser qui, vivi, che celebriamo i morti. E non ci accorgiamo che sono loro, i morti, che ci convocano qui, come dinanzi a un tribunale invisibile, a render conto di quello che in questi anni possiamo aver fatto per non essere indegni di loro, noi vivi. In tutte le celebrazioni torna, ripetuta in cento variazioni, oratorie, una verità elementare che nelle lettere dei condannati a morte è espressa come una naturale e semplice certezza: che i morti non hanno considerato la loro fine come una conclusione e come un punto d’arrivo, ma piuttosto come un punto di partenza, come una premessa che doveva segnare ai superstiti il cammino verso l’avvenire. Questa non è una frase retorica, non è un artificio pietoso destinato a consolare le madri di averli perduti: è che veramente noi sentiamo, quasi con la immediatezza di una percezione fisica, che quei morti sono entrati a far parte della nostra vita, come se morendo avessero arricchito il nostro spirito di una presenza silenziosa e vigile, con la quale ad ogni istante, nel segreto della nostra coscienza, dobbiamo tornare a fare i conti. Quando pensiamo a loro per giudicarli, ci accorgiamo che sono loro che giudicano noi; è la nostra vita, che può dare un significato e una ragione rasserenatrice e consolante alla loro morte; e dipende da noi farli vivere o farli morire per sempre».

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