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Meno di mille euro al mese per quattro veronesi su dieci

Più di quattro contribuenti veronesi su dieci, il 41 per cento del totale, vivono con meno di mille euro netti al mese. È uno dei dati che emerge dall’indagine realizzata dallo Spi Cgil del Veneto, il sindacato dei pensionati, che ha elaborato i numeri diffusi nelle scorse settimane dal ministero delle Finanze, relativi ai redditi 2018 sull’anno d’imposta 2017. Ieri sono stati pubblicati i nuneri relativi alla nostra città e i risultati non sono certo esaltanti. Il reddito medio pro capite nella nostra provincia è passato dai 20.211 euro lordi annui del 2016 ai 20.144 euro del 2017: una riduzione dello 0,3 per cento che rende più pesante il livello di inflazione, stimato all’1,23 per cento. A Verona, a differenza delle altre province venete, la categoria che perde di più è quella degli imprenditori (contabilità ordinaria) che vedono il proprio reddito scendere dai 42.853 euro lordi del 2016 ai 38.678 euro del 2017. Penalizzati, come nel resto della regione, anche i lavoratori dipendenti il cui stipendio netto scende da 21.072 a 20.830 euro mentre aumentano i guadagni soprattutto dei lavoratori autonomi, che passano dai 48.325 euro del 2016 ai 49.990 euro dell’anno successivo. Infine i pensionati, che mantengono inalterato il loro potere d’acquisto, grazie agli accordi del 2016 fra i sindacati e il governo a guida Renzi: rappresentano tuttavia la categoria più povera, con assegni medi di 17.162 euro lordi annui. «L’analisi rientra nell’ambito della negoziazione sociale, che vedrà i sindacati dei pensionati confrontarsi con amministrazioni ed Enti locali per individuare politiche mirate a tutelare le fasce di popolazione più deboli. Nel nostro territorio, come si può vedere, le difficoltà economiche non mancano. E crescono anche le diseguaglianze sociali», commenta Adriano Filice, segretario generale dello Spi Cgil di Verona. Disuguaglianze che possono essere riassunte da un altro dato: nel Veronese il 14 per cento della ricchezza prodotta è distribuita fra il 41 per cento dei contribuenti, quelli che dichiarano meno di 15 mila euro lordi l’anno. Un altro 15,6 per cento, invece, è suddiviso fra il 2,5 per cento di lavoratori, quelli che denunciano redditi superiori ai 75 mila euro. «Questi dati», sottolinea Filice, «dimostrano come anche nella nostra provincia la ricchezza si sposti sempre più verso l’alto, accrescendo il divario fra le varie categorie sociali. E a Verona a rimetterci sono soprattutto i lavoratori dipendenti». Una tendenza, sottolinea il sindacato, che contribuisce a rallentare la domanda interna condizionando la crescita economica. «Alla base di questa situazione», aggiunge il segretario dello Spi Cgil di Verona, «ci sono anche nella nostra provincia la persistente precarizzazione del lavoro, i blocchi contrattuali e il continuo aumento dell’evasione fiscale che mette in difficoltà gli equilibri contabili delle nostre amministrazioni locali». Amministrazioni che hanno tuttavia gli strumenti per intervenire al fine di ridurre questo divario. «Alcuni Comuni», si legge nel report, «come nel caso di Affi, Nogarole Rocca, San Giovanni Lupatoto, Valeggio sul Mincio, tenendo conto anche delle nostre indicazioni, hanno deciso di alzare la soglia di esenzione o ridotto le aliquote per i redditi più bassi». Continua la ricerca: «Altre amministrazioni, invece, per effetto dello sblocco dei tributi previsto dalla legge di bilancio 2019, come Belfiore, Buttapietra, Illasi, Isola Rizza, Palù, San Pietro di Morubio, Sorgà, Tregnago e Zevio, hanno semplicemente inasprito la pressione fiscale, in alcuni casi raddoppiandola, senza distinguere tra redditi bassi e quelli alti, prelevando in maniera indistinta spesso applicando aliquote uniche uguali per tutti senza applicare nessun criterio di progressività come se tutti possedessero la stessa ricchezza. In questo modo», è la conclusione della ricerca, «hanno contribuito ad allargare la forbice delle disuguaglianze sociale». • © RIPRODUZIONE RISERVATA

Francesca Lorandi

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