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Il Naufragio dell'Isola del Giglio

Costa Concordia, dieci anni dopo. I veronesi superstiti: «Impossibile dimenticare, che rabbia»

La Costa Concordia inabissata il 14 febbraio
La Costa Concordia inabissata il 14 febbraio
La Costa Concordia inabissata il 14 febbraio
La Costa Concordia inabissata il 14 febbraio

Ore 21,45. Venerdì 13 gennaio 2012. La «Costa Concordia», 3.216 passeggeri e 1.013 componenti l’equipaggio, urta lo scoglio Le Scole dell’Isola del Giglio. La città galleggiante, squarciata nel fianco per 70 metri, imbarca acqua, si adagia sulla roccia. È l’innesco di uno dei peggiori naufragi della storia marinara italiana: 32 morti, 110 feriti. E una macchia sull’orgoglio nazionale, l’Italia delle Repubbliche marinare e dei rgandi navigatori, con il titubante comandante Francesco Schettino e la frase, rimasta inconica, del suo omologo Gregorio De falco, responsabile della Capitaneria di Porto di Livorno: «Torni a bordo, c...o!». «Certo che ci penso a quella sera. Soprattutto con un sentimento di rabbia, per tutti quanti non ce l’hanno fatta e per i loro familiari», ricorda Elena Mazzoni.


Sul mare Dieci anni fa la nogarese, con il marito Mauro Massagrande ed il figlio, oggi uomo fatto ma allora bambino di nove anni, era in crociera sulla «Concordia», con un gruppo di undici compaesani. «Magari c’erano altri veronesi che non abbiamo incontrato, chissà», riflette. Poi risponde alla domanda chiave che si può fare a un naufrago, «No, non tornerò mai più in mare, neppure su una barca, tanto meno su una nave. Ormai mi fa terrore», riflette. I ricordi, dopo dieci anni, non sono sbiaditi. «Certe cose non passano mai, lasciano un segno. Ancora adesso, di tanto in tanto, quella memoria ritorna, ne parliamo tra di noi», confida Elena.
«Noi siamo scesi tra gli ultimi, ed era ormai mattina. Ricordo le scialuppe incastrate, i salvagente sparsi dovunque... quanti errori in quell’emergenza. Siamo stati fortunati, alla fine. Poteva andare diversamente, come purtroppo è stato per troppe persone», ricorda Elena.

Ricordi Un anno dopo la tragedia, nel gennaio 2013, il gruppo degli 11 superstiti veronesi prese parte ad una messa «per ricordare chi non c’è più». Tutti facevano i conti con le paure, gli esiti di un trauma. «C’è più di una ragione per provare, ancora oggi, un senso di rabbia. Ci furono errori, una serie di comportamenti non all’altezza della situazione», interviene il marito, Mauro Massagrande. I salvagente che la famiglia nogarese si trovò a indossare avevano le luci di segnalazione fuori uso. «Per non parlare delle scialuppe incastrate», ricorda, per esperienza diretta, la coppia. Una concatenazione maledetta di elementi.

 

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Dubbi «Già dai primi minuti dopo l’impatto, dal rumore si poteva capire come ci fosse stato uno schianto, la gravità del problema», ricorda Elena Mazzoni. Le resta, dopo dieci anni, un dubbio: «Se solo, in quel momento, fosse stata decisa l’evacuazione della nave forse tutti sarebbero arrivati salvi a terra». 
Le inchieste hanno fatto chiarezza, mettendo in fila errori ed omissioni di quella notte maledetta. Il comandante Schettino è stato condannato ed è pendente il suo ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. «Ma ancora oggi, quando mi capiti casualmente di vederne l’immagine, provo un senso di...». La donna altro non aggiunge. «Troppe brutte scene si sono viste quella notte», concorda il marito Mauro. Il passato è faticosamente alle spalle, il mare resta là: «Mai più, neppure su una barca». Ogni tanto le paure riaffiorano: «Soprattutto in questi giorni». Accompagnate dalla rabbia per ciò che, solo dopo, è venuto alla luce. Doveva essere la crociera «Profumo degli agrumi», nel Mare Nostrum Mediterraneo. Finita in un incubo, fisso nei ricordi anche dopo dieci anni.

 

Paolo Mozzo

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