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Aveva 102 anni

Addio a Vittore Bocchetta, testimone della guerra

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Vittore Bocchetta
Vittore Bocchetta
Vittore Bocchetta
Vittore Bocchetta

Il guerriero senza briglie ha ceduto il passo. È morto, ieri sera, nella sua casa in quartiere Catena, dopo aver vissuto con caparbietà mille vite, Vittore Bocchetta, 102 anni compiuti il 15 novembre scorso. Artista, scultore, scrittore, testimone anarchico della deportazione e dell’antifascismo, Bocchetta, nato a Sassari nel 1918, giunto da bambino a Verona, città in cui, dopo tutto il suo peregrinare, era tornato, si è pian piano addormentato dopo aver superato, con la consueta ostinazione, uno scompenso respiratorio che lo aveva costretto a un ricovero in ospedale. Ne era uscito venerdì scorso.

 

Niente di nuovo per lui che aveva negli ultimi anni affrontato gli acciacchi della vecchiaia e persino qualche operazione alla soglia del secolo, uscendone vittorioso con gli alleati di sempre: i due nipoti residenti a Bergamo e in Sardegna, il geriatra Luigi Grezzana e l’amico Roberto Bonente, il primo ieri sera a correre al suo capezzale: «Abbiamo perso un grande amico e un personaggio che ha attraversato tutta la nostra esistenza», ha detto ieri dall'appartamento dell'amico. «Era un uomo straordinario, eccezionale, non è retorica», ha aggiunto Grezzana. «Ha vissuto con dignità e lucidità invidiabili con il mito della libertà e l’amore sfrenato per Verona. Sempre sereno, faceva coraggio agli altri, pieno di ottimismo. Persone come lui ti rapiscono e ti portano via. Si sa che 102 anni sono tanti, ma avremmo voluto che rimanesse qui per sempre. Era unico, la sua vita l’ha dimostrato. Ora diventa invisibile, ma non assente. Per chi l’ha conosciuto, rimane».

 

Bocchetta, nato a pochi giorni dalla fine della Grande guerra, ha conosciuto il Ventennio, la Resistenza a Verona, la deportazione a Flossenburg, ma anche la povertà, la decadenza e una seconda vita oltre oceano in Argentina prima e a Chicago poi, dove si è affermato come artista di fama internazionale e docente universitario. Tre i matrimoni archiviati e una costante: il ritorno, dopo tante peripezie e aver scampato più volte la morte, sempre nella sua Verona, suo unico punto fisso. «La mia vita è stata tutta un destino», soleva dire.

 

Arrestato più volte tra il ’43 e il ’44, conosce ogni prigione cittadina, dalle Corridoni agli Scalzi, dalle casermette di Montorio al palazzo dell’Ina, sede delle SS e luogo di tortura. Viene deportato a Hersbruck, lager satellite di Flossenburg nel 1944 (dove oggi campeggia una sua scultura, «Ohne namen»). Un anno di prigionia lo riduce a 45 chili. Torna ma paga il fio della sua indipendenza di pensiero anche dopo la guerra. Non è allineato e viene emarginato. Cade in miseria. Così nel 1949 parte, grazie a una colletta di amici, per l’Argentina e poi per Chicago dove si afferma come artista di fama internazionale e insegnante all’università. Vita che nel 1989 si lascia alle spalle (compresi tre matrimoni) e torna a Verona: «Verona è il mio amore. Qui è morto mio padre, la mia quercia». E alla città ha regalato due monumenti agli Scalzi: il Don Chiot («ieratico e indisciplinato», diceva) che sbuca da un muro guardando le carceri e il cipresso in acciaio inox che ricorda l’assalto agli Scalzi. E poi i suoi libri, tra cui «Quinquennio infame» e «Spettri scalzi della Bra» pubblicato da Giorgio Bertani. 

 

Maria Vittoria Adami

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