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«Così i nazisti uccisero il generale Gandin»

STORIA. Domani mattina si celebra al monumento nazionale di circonvallazione Oriani il 68° anniversario del sacrificio della Divisione Acqui a Cefalonia nel 1943. Il racconto di Angelo Stanghellini, che era l'autista del comandante italiano e lo portò sul sito della fucilazione. «Era pallido, gridò: viva l'Italia, viva il Tricolore. Poi la raffica»

 Angelo Stanghellini oggi
Angelo Stanghellini oggi

 Angelo Stanghellini oggi
Angelo Stanghellini oggi

Verona. «Evviva l'Italia, evviva il Tricolore!» Queste le ultime parole pronunciate davanti al plotone di esecuzione dal generale Antonio Gandin, comandante della Divisione Acqui presente a Cefalonia con circa 12 mila uomini e oltre 500 ufficiali. Ne caddero più della metà.
Di quei terribili giorni del settembre 1943 vissuti nell'isola greca quando era ventenne, ricorda ancora ogni particolare. Il reduce veronese Angelo Stanghellini, nato 88 anni fa a Valeggio sul Mincio, ha impresso nella mente quel crimine di guerra. Fu testimone oculare della feroce vendetta dei tedeschi contro la Divisione Acqui. Sul suo balcone di casa in Borgo Trieste a Verona, dove abita da 25 anni, ha dipinto l'isola ionica nella quale gli ex alleati nazisti massacrarono centinaia di nostri ufficiali e migliaia di nostri soldati considerandoli traditori. Dopo l'8 settembre gli italiani si rifiutarono sia di cedere le armi ai tedeschi sia di schierarsi con loro. Le truppe di Hitler esigevano il disarmo incondizionato e attuarono il «Piano Achse» che prevedeva il disarmo forzato. Fallita una difficile trattativa, i nostri militari decisero di resistere in una sanguinosa battaglia che infuriò dal 15 al 22 settembre. Sopraffatti dal nemico, vittorioso soprattutto grazie al massiccio utilizzo dell'aviazione e alla superiorità di mezzi e armi, chiesero la resa che fu accettata ma scattò contro di loro la spietata rappresaglia dell'esercito germanico. Gandin, del quale Stanghellini fu anche autista, fu condannato a morte e poi fucilato il 24 settembre.
NEL GENNAIO '43, quando è chiamato alle armi nel 5° Reggimento artiglieria contraerea, Stanghellini ha 19 anni e non sa ancora che andrà a Cefalonia a vedere l'inferno. Dal distretto di Verona parte con la tradotta per la caserma Prandina di Padova «dove ho preso il patentino di guida», ricorda. Dopo tre mesi di Car, la sua batteria giunge a Napoli. Qui, suo sergente maggiore istruttore è il famoso attore comico Peppino De Filippo. «Alla notte» ricorda «andava a ballare con Vittorio Emanuele, Mussolini e la Petacci, e quando al mattino prendeva servizio ci radunava in un angolo della caserma e ci raccontava tutto». Poi il trasferimento a Taranto dove il 10 luglio è imbarcato sulla nave Italia con destinazione Cefalonia. «Quando la nave ha fischiato per salpare» rammenta «il nostro capitano, un tenente, un sottotenente, due marescialli, due sergenti maggiori, un caporalmaggiore e un caporale scelto ci hanno salutato con la mano: si pensava venissero con noi e invece sono rimasti sul molo...». Traumatica la traversata del canale di Otranto: «Alla partenza c'erano onde alte come queste case, si immagini cosa abbiamo sofferto quella notte. Abbiamo fatto una sosta a Valona in Albania, dove abbiamo fatto colazione; poi, abbiamo avuto 12 ore di allarme in mare perché c'erano sommergibili inglesi che ci volevano affondare».
Dunque, il passaggio nel canale di Corinto, lo sbarco nel Pireo, due settimane a Patrasso e, infine, il 27 luglio Cefalonia, prima a Sami e poi alla caserma Mussolini ad Argostoli. «Lì ho conosciuto i primi veronesi: un certo Righetti e poi Guido Caleffi». Stanghellini fa parte del 33° Reggimento artiglieria: «Finito il rancio, viene il capitano Longoni che era l'attendente del generale Gandin». Stanghellini fa presente di avere il patentino di primo grado, «che permette di guidare qualsiasi automezzo, dall'automobile al carroarmato», spiega. Il superstite riferisce che in quel momento di autisti c'era un gran bisogno perché molti di loro erano fuggiti, lasciando i camion fermi, a causa delle chiacchiere che giravano già sulla futura belligeranza con i tedeschi. «Il generale disse al capitano: teniamolo qui al Comando». Lei era contento? «Maria Vergine, mi sono sollevato da terra!» risponde oggi, ricordando che i tedeschi battezzarono gli autisti «merce preziosa». Con il capitano si reca nel magazzino: «C'era una fila di camion di vario genere e mi ordinò di prenderne uno, quello che volevo; ne ho scelto uno piccolo, lo Spa 39, perché più facile da guidare rispetto a quelli grossi, e ci dirigemmo al Comando».
AI PRIMI DI AGOSTO gli capita anche di accompagnare il generale Gandin presso una batteria: «Sul camion non abbiamo detto una virgola, avevo soggezione». Rievoca ciò che accadde dopo la notizia dell'armistizio. Nelle sere seguenti, il generale convoca al Comando una serie di riunioni aperte a ufficiali superiori, sottufficiali, soldati, cariche di tensione per le perentorie richieste dei tedeschi: «C'era un grande salone e Gandin disse: non siamo più alleati con i tedeschi, adesso siamo nemici. Lì è esploso un boato, hanno spaccato porte... Poi lui aggiunse: i tedeschi esigono le nostre armi. Non avesse detto quella parola...». Nei due giorni successivi il generale informa i suoi che gli ex alleati nazisti insistono nell'imposizione, vogliono le armi. «Successe il finimondo», rammenta Stanghellini ripetendo le esclamazioni di protesta dei suoi commilitoni: «Le armi ai tedeschi? Le armi sono state consegnate a noi e sono nostre!»
Sono le giornate febbrili del negoziato. Gandin, che conosceva bene i tedeschi, ammonisce: «Se noi facciamo una battaglia contro i tedeschi e perdiamo, ci ammazzano tutti», testimonia Stanghellini. Una triste previsione che si sarebbe avverata. Come conferma il reduce, il generale consulta i suoi uomini, indice una votazione per decidere se consegnare le armi o combattere contro i tedeschi. È il cosiddetto referendum al quale partecipano centinaia di ufficiali, sottufficiali e soldati. «Abbiamo votato con un foglietto di carta, io ho fatto lo spoglio e per 50 voti di maggioranza è stato detto: non cediamo le armi ai tedeschi ma li combattiamo». Dopo un minuto di silenzio il generale dà l'allarme a tutta la Divisione e forma il fronte a Capo Munta. Il superstite richiama alla memoria il subbuglio di quella notte: «Autocarrette, muli, cannoni, mitraglie, tutti ammassati in questa punta dell'isola». Non dimentica nemmeno gli attacchi aerei dei tedeschi con gli Stukas: «Gli Stukas sulle ali avevano due mitragliere, sotto la fusoliera portavano una bomba di due quintali e una sirena da 80 centimetri di diametro: venivano sempre due per volta, due andavano e due venivano, giorno e notte, si buttavano in picchiata, attaccavano la sirena e sganciavano la bomba».
GLI ITALIANI soccombono. Stanghellini, dopo aver portato munizioni a una batteria di anticarro, non ha più ordini e torna al Comando di Argostoli ormai «disabitato». Dopo tre giorni, vede arrivare una camionetta Volkswagen dalla quale scendono 4 tedeschi armati di bombe a mano. «Dopo circa un quarto d'ora giunge un'altra camionetta con il generale Gandin» racconta «e i tedeschi cominciano a interrogarlo, c'erano gli interpreti». Si tratta del processo sommario nel quale Gandin è condannato alla pena capitale. Il reduce ricorda cosa fu detto alla fine al comandante della Acqui: «Lei, signor generale, da questo momento kaputt». Dal suo capitano, Stanghellini è mandato a prendere l'autocarretta che servirà a prelevare Gandin. Quando torna, osserva questa scena: «Ci sono due tedeschi armati col mitra spianato e il generale esce per primo senza più gradi, bottoni, cinghia, cordoni delle scarpe, aveva solo giacca e pantaloni; è stato uno shock indescrivibile vedere così il generale che avevo servito».
IL GENERALE sale a bordo e a Stanghellini comandano di guidare proseguendo per la strada del porto per quasi 500 metri: «Mi fermo davanti al cancello di una vecchia villa disabitata di un generale greco». È la Casetta Rossa, in riva al mare, diventata uno dei luoghi simbolo dell'eccidio. Qui i tedeschi fanno scendere Gandin che scortano coi mitra. «Al generale, al quale non davano più del signor, dissero: entri!». Stanghellini narra che era presente il cappellano militare padre Romualdo Formato il quale chiede a Gandin se vuole confessarsi ma il generale rifiuta. Poi descrive: «C'è un plotone di esecuzione con 7-8 militari col mitra e uno che lo comanda, forse un capitano, che rivolgendosi al generale afferma: lei da questo momento è al patibolo, esprima il suo ultimo desiderio». «Gandin, che era molto pallido in volto, ci ha pensato un istante e poi: evviva l'Italia, evviva il Tricolore!», testimonia Stanghellini, che continua: «L'ufficiale indietreggia e ordina: fuoco! I soldati del plotone, disposti a ferro di cavallo, sparano». Gandin è falciato dalle raffiche di mitra. «Con disprezzo l'ufficiale tedesco dà un calcio al generale, il cui corpo era già tagliato in tre pezzi, facendolo rotolare nelle acque del mare», racconta il superstite.
Stanghellini riceve poi il compito di tornare al Comando di Argostoli per condurre alla Casetta Rossa anche gli ufficiali. Fu un supplizio e un massacro: «Ne trasportai quattro alla volta per tre giorni e tre notti: 332». «Mi sono sempre chiesto: perché 4 alla volta se sul camion ce ne potevano stare anche 15? Chi veniva prelevato non sapeva che sarebbe stato fucilato», afferma. È la strage degli ufficiali superiori: «Li mitragliavano là sul molo e poi ne facevano una catasta; rimasero senza sepoltura per giorni». Terminato quello sterminio i tedeschi «chiusero il cancello della Casetta Rossa col reticolato».
In seguito la gente del posto, sentito l'odore di cadavere, «con gli asini e i carretti portò di nascosto, durante la notte, le salme al cimitero dove le hanno seppellite», evidenzia Stanghellini che dichiara oggi indignato: «È vergognoso che li abbiano fucilati e lasciati senza sepoltura». Il reduce rimase prigioniero di guerra dei tedeschi, costretto a servire la Wehrmacht per la quale svolse anche incarichi di rilievo: il primo fu quello di andare a prelevare Edda Mussolini nella vicina Corfù. Fece poi l'autista, nei Balcani, a quattro ufficiali nazisti. Fu liberato il 15 agosto '44 dai reparti russi in avanzata e poi rimpatriato dagli inglesi via mare dalla Grecia a Taranto nel marzo '45.

Marco Scipolo

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