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Soffriva di obesità

Marco e quella barriera fino alla morte. «Non ha potuto scegliere l'addio che voleva»

Marco con la moglie Nadia
Marco con la moglie Nadia
Marco con la moglie Nadia
Marco con la moglie Nadia

«Per me non è concepibile che una persona nelle condizioni di mio marito non possa scegliere l’addio che vorrebbe. Stiamo abbattendo le barriere di discriminazione di tanti gruppi di persone e non abbiamo alcun riguardo per i sovrappeso, nemmeno per quanto concerne le ultime volontà». Nadia Gasparini ha deciso di rendere pubblica la sofferenza tremenda che ancora sta attraversando, vedova da poco più di un mese, per lanciare un messaggio a tutti, perché nel percorso verso il pieno rispetto delle persone che soffrono di obesità, e dei loro diritti, c’è ancora molto da fare.
Marco Manganotti, il suo compagno, si è spento il 25 giugno a 51 anni a causa di una grave malattia. Era sovrappeso, ha lottato anni contro questa malattia e anche contro lo stigma, il giudizio facile che a volte arriva da parte di chi non vive il problema e lo cataloga con noncuranza tra i vizi o le debolezze umane. Una vita con 180 chili da portare addosso, tanti ne pesava il signor Manganotti prima di essere aggredito dal male, va incontro anche a molti inconvenienti pratici, costringe a rinunce, oltre a causare patologie correlate.
E poi quando arriva il momento più triste, il distacco, ecco che ci si scontra contro le barriere. Qui comincia la testimonianza di Nadia, che a sua volta in passato di obesità ha sofferto.
Marco faceva il cuoco, soffriva di questa malattia cronica che è l’obesità, era affetto da patologie correlate: diabete, ipertensione arteriosa e insufficienza renale. Avrebbe dovuto sottoporsi a un intervento di chirurgia bariatrica per ridurre la dimensione dello stomaco, ma a maggio durante gli accertamenti ha scoperto un cancro al colon in fase avanzata. È stato ricoverato a Borgo Roma dove, sottolinea Gasparini, «è stato seguito con cura e dedizione». Non è purtroppo bastato, poiché Marco Manganotti ha contratto anche una broncopolmonite, è dimagrito repentinamente 30 chili e il decorso della malattia non gli ha lasciato scampo.
 

Ultime volontà «Negli ultimi giorni aveva capito», racconta Nadia, «mi ha lasciato prescrizioni precise per l’ultimo addio. Non voleva il funerale religioso, ma un commiato al cimitero». «Inoltre», sottolinea, «desiderava essere sepolto in un loculo nel cimitero di Ca’ di David, dove riposano i suoi genitori».
Seguendo le sue volontà, Gasparini e il figlio di Manganotti si sono rivolti ai servizi funebri. E qui si sono scontrati con la realtà delle barriere architettoniche. «Non abbiamo potuto scegliere il feretro: quello adatto a contenere la salma di Marco era di un solo tipo, in legno chiaro oppure scuro, e il prezzo era esorbitante», rivela sconvolta la signora. Poi gli altri intoppi. «Mio cognato è andato al cimitero a scegliere un loculo ma l’hanno bloccato: una bara con quelle misure non ci sarebbe entrata», continua Nadia. Ecco allora l’idea della cremazione. Un’urna cineraria sarebbe certamente entrata nel loculo. Via impraticabile anche questa. «Ci hanno spiegato che la porta del forno crematorio è troppo piccola per una cassa così grande; dovevamo accontentarci della sepoltura a terra». Alla fine i familiari di Manganotti non hanno avuto scelta, ora Marco riposa sotto terra. Per lui, durante il commiato, un gesto affettuoso voluto da Nadia: sulla bara ha appoggiato il suo casco. La passione per le moto era una delle tante cose di cui la malattia negli ultimi anni aveva privato Marco.
Davide Dusi, responsabile Servizi cimiteriali Agec di Verona, è «sorpreso e dispiaciuto» da quanto è accaduto ai parenti di Marco Manganotti. «Non sapevo che vi fossero queste difficoltà», confessa. «Nei lotti cimiteriali di nuova costruzione vengono realizzati loculi con dimensioni maggiori, ma è più difficile trovarli nei cimiteri dei piccoli paesi», considera.
Riguardo al problema della bocca del forno crematorio troppo piccola, afferma: «Ritengo che debba essere fatta una riflessione con le ditte che costruiscono gli impianti. Finora la questione non era emersa in maniera palese, tuttavia credo sia giunto il momento di affrontarla».


Lo stigma Sul tema dell’obesità, e sulla questione culturale connessa, interviene il dottor Riccardo Dalle Grave, responsabile dell’Unità di riabilitazione nutrizionale della casa di cura Villa Garda e grande esperto della materia. «Chiariamo un concetto», premette, «il valore di una persona non è determinato dal suo peso. Se le persone affette da obesità venissero incoraggiate e valutate per la loro cultura, per l’intelligenza e le capacità che possiedono, senza pregiudizi sulla forma fisica, potrebbero affrontare meglio le cure della malattia e avviarsi verso la guarigione. Purtroppo, questo raramente accade perché lo stigma nei loro confronti è molto diffuso». Dalle Grave ha pubblicato studi sul problema. «Sappiamo, da indagini negli Stati Uniti e in Europa, che il 20% delle persone con obesità ha subito discriminazioni, e il 40 ha dovuto sopportare lo stigma, ovvero l’attribuzione di qualità negative», riferisce. Uomini e donne con eccesso di peso vengono colpiti da commenti sprezzanti, bullizzati o valutati negativamente a scuola e nel lavoro; hanno meno probabilità di venire promossi e percepiscono stipendi più bassi. Perfino tra il personale sanitario esiste una cattiva considerazione delle persone obese. «Il 70% dichiara di aver subito almeno una volta nella vita lo stigma da medici, infermieri e psicologi, e il 50% più di una. In questi casi, i pazienti non hanno fiducia nei medici e rinunciano a curarsi. In casi molto gravi, specialmente in età adolescenziale, l’interiorizzazione dello stigma può portare a volontà suicide», avverte Dalle Grave. 
Sulla stessa lunghezza d’onda il chirurgo Marco Battistoni dell’Aoui di Verona: «Spesso non ci rendiamo conto di quante siano le limitazioni. Molti rinunciano ad andare al mare per vergogna, si devono adattare ad alberghi con toilette e letti che non ne sopportano il peso, non stanno in un solo sedile in aereo perciò comprano due biglietti o rinunciano a volare». «Diventa difficile salire una rampa di scale, allacciarsi le scarpe, sedersi al tavolino di un bar», prosegue. «Alcune mie pazienti operate mi telefonano per ringraziarmi perché finalmente accavallano le gambe. Tutti possiamo impegnarci di più per garantire anche a queste persone un’esistenza serena», conclude. 

Paola Bosaro

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