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l'autrice del romanzo candidato al premio strega

Jana e la telefonata che le ha cambiato la vita: «La scrittura? Per me era un'autoterapia»

Karsaiová, slovacca, è autrice di «Divorzio di velluto». Pronta a un viaggio in Italia, all’ultimo momento le cambiarono destinazione del “last minute”: Rimini. Da lì è finita a Vallese
Jana Karsaiová e il primo romanzo «Divorzio di velluto», che è stato tra i candidati del Premio Strega lo scorso anno
Jana Karsaiová e il primo romanzo «Divorzio di velluto», che è stato tra i candidati del Premio Strega lo scorso anno
Jana Karsaiová e il primo romanzo «Divorzio di velluto», che è stato tra i candidati del Premio Strega lo scorso anno
Jana Karsaiová e il primo romanzo «Divorzio di velluto», che è stato tra i candidati del Premio Strega lo scorso anno

La telefonata che ti cambia la vita: «Pronto, parlo con Jana Karsaiová? Ci dispiace, abbiamo cambiato destinazione al vostro “last minute”: non più Bibione, ma Rimini. Accettate?». Era il 1999: Jana, ventenne nata in Slovacchia che nel 1993 si era separata dalla Repubblica Ceca, era talmente smaniosa di conoscere l’Italia con la sua amica Emma che rispose anche per lei: «Sì, accettiamo».

Non sapeva, all’epoca, che sarebbe diventata attrice e scrittrice e che il «divorzio di velluto», com’era stata battezzata la scissione di sei anni prima che aveva decretato la fine della Cecoslovacchia, sarebbe diventato il titolo del suo primo romanzo (edito da Feltrinelli) incluso poi tra i dodici candidati al Premio Strega 2022, vinto da Mario Desiati con Spatriati.

Lei ed Emma, arrivate a Rimini, eccitate ed euforiche, avevano subito adocchiato una discoteca dove sarebbero andate a ballare la sera. E pazienza se prima dovevano sorbirsi un concerto nello stesso locale: «Uffa!», sospirarono e si rassegnarono. Ma durante il concerto Jana non riusciva a distogliere lo sguardo da un musicista: Massimo Coppola, si chiamava e si chiama, era un chitarrista pugliese che la stregò al primo assolo.

«Sembrava un flirt estivo...»

Al termine dell’esecuzione, Jana, che non conosceva l’italiano ma parlava in inglese, vide Coppola avvicinarsi per offrirle una birra: «Gli ho risposto per tre volte “no, lasciami in pace”, ma lui ha continuato a insistere. Massimo tra tutta quella gente era il solo a conoscere l’inglese, la lingua che ero costretta a parlare io perché in italiano sapevo a malapena dire “ciao” e poche parole: iniziammo a parlare ed è finita che sono diventata sua moglie e che abbiamo tre figli. E pensare che sembrava un flirt estivo...».

«Lui è venuto in Slovacchia a Bratislava, abbiamo vissuto insieme e, una volta laureata in teatro, mi sono detta: “E ora andiamo in Italia”, e abbiamo scelto Verona. Perché proprio Verona? È la città di Romeo e Giulietta e io e Massimo eravamo innamoratissimi. Ed è esattamente equidistante 800 chilometri da Bratislava e da Bari, da dove provenivamo noi. Buffo no? Avevamo un amico che all’epoca abitava a Negrar: per il primo periodo ci avrebbe potuto ospitare lui».

Da Verona a Praga... e ritorno

«Vent’anni fa», prosegue Jana, «la Slovacchia non faceva parte dell’Unione Europea: per poter avere il permesso di soggiorno mi sono iscritta all’Università di Verona e da lì è nata la mia frequentazione con la città. Ho sempre lavorato nel teatro, per la Fondazione Aida, dove ho conosciuto la regista Nicoletta Vicentini, ma con i figli piccoli era impossibile andare in tournée. Nel frattempo con Massimo ci siano trasferiti e abbiamo vissuto per due anni a Ostia, poi due anni a Praga e poi da Praga siamo tornati qua. A Vallese di Oppeano. Abbiamo scelto un paese dove ci troviamo bene, un ambiente vivibile, e si trovano bene pure i figli. Mi sono rifatta viva con Nicoletta e lei mi ha fatto scoprire la Pel d’Oca, una compagnia teatrale speciale: vi recitano persone della rete Self Help, nata nell’ambito dei servizi psichiatrici di Borgo Roma. Nel frattempo avevo fatto sempre l’attrice e frequentato a Roma un corso su come gestire il teatroterapia, lo stesso che ha frequentato Nicoletta: non stavo più su un palco, mi interessava la gestione dei laboratori, magari anche per le persone con fragilità. Teatro come strumento per far stare bene. Non stavo più pensando alla carriera come attrice, non era più come una volta che cercavo di soddisfare il mio ego salendo dal palco».

La scrittura come autoterapia

«È stato con le maternità che ho cominciato a scrivere», spiega Jana. «Prima ero sempre in mezzo alla gente a fare teatro, essendomi ritrovata a casa ad accudire i bambini, con la mia famiglia e quella di mio marito lontane a Bratislava e in Puglia, sempre da soli, l’isolamento forzato mi ha portato a cercare qualcos’altro per farmi stare bene. La scrittura era un’autoterapia. Quando sono andata alla Pel d’Oca mi sono sentita a casa, come non mi capitava negli altri ambienti. Alla fine sono straniera, rimango straniera ma alla Pel d’Oca non esistono stranieri o straniere, ci sono persone veramente di tutti i tipi, con tante difficoltà, tante fragilità come tutti gli altri. Io lì vengo come volontaria, non me ne frega niente di quanti sono i matti e i normali».

«Divorzio di velluto»

Divorzio di velluto, è stato scritto del suo libro, porta il titolo di una divisione politica che riflette la separazione tra Katarina, la protagonista del romanzo, e il marito Eugen. Una trovata metaforica che suggerisce quanto i paesi somiglino incredibilmente alle persone.

«Nel 1993, quando c’è stata la scissione, ero a Bratislava e avevo 15 anni: ero un’adolescente che non capivo molto», racconta Jana. «È stato strano scrivere il libro: io ero a conoscenza delle cose ufficiali, la date, quando era successo ma in realtà era come se gli eventi di quegli anni li avessi vissuti inconsapevolmente: non capivo la preoccupazione dei miei genitori, o perché quella data cosa stesse succedendo, le manifestazioni... A casa mia l’approccio era quello: poiché era pericoloso parlare della politica, non se ne parlava mai. Quando andavamo in vacanza le mete erano l’ex Jugoslavia o la Bulgaria, posti che erano simili ai nostri. Non percepivo la differenza. Per scrivere “Divorzio di velluto” mi sono rivolta così alle persone che erano adulte in quell’epoca, mi sono fatta raccontare che cosa avevano vissuto realmente».

Un romanzo nato in italiano

L’italiano non è la sua lingua madre, si è sforzata di impararlo avendo come punto di partenza il francese appreso frequentando il liceo francese a Bratislava. Eppure il romanzo l’ha scritto nella nostra lingua perché «l’italiano mi dà la possibilità di pensare in un altro modo, mi dà uno sguardo e un distacco che altrimenti non ho. Lo slovacco mi veste stretta», ha raccontato in un’intervista su ilLibraio.it.

«Prima di partire mi ero presa un libro che si intitolava L’italiano per autodidatti e un dizionario italiano-slovacco che avevo trovato da un antiquario, datava 1972. A Verona ho iniziato a lavorare come attrice, nel mio primo spettacolo facevo la parte di un angelo, muto. Camminavo per la scena, mi arrampicavo sui bauli sparsi sul palco, ballavo, ridevo, ma non parlavo. L’unica frase che dicevo era in slovacco. Con me, sul palco, ha esordito anche la mia lingua. Abbiamo viaggiato tanto e io, in ogni posto dove recitavamo, verso la fine dello spettacolo sussurravo all’altro attore la mia unica battuta: “neboj sa, zase bude lepšie”, “non ti preoccupare, andrà meglio”. A volte non sapevo a chi fosse indirizzata, se a lui, al pubblico o a me».

In un altro spettacolo, ha raccontato Jana, «quando mi sono guadagnata il diritto di parlare, la regista pretendeva una pronuncia perfetta: è stata una sfida, mi esercitavo tutti i giorni. Ho memorizzato il suono delle mie battute, ho capito la differenza tra le vocali aperte e chiuse. Era come se mi fosse mancato fino ad allora una parte dell’udito. L’italiano l’ho imparato così, per via dell’orecchio. Se mi capitava una parola sconosciuta, interrompevo la conversazione e chiedevo di ripeterla. Lo faccio tuttora. A volte sbaglio ancora le doppie oltre alla pronuncia delle vocali».

Il primo libro in italiano che ha letto è stato La coscienza di Zeno di Italo Svevo, scelto da Jana perché pensava che parlasse della filosofia zen: «A dire il vero non ci ha capito molto. Ma ho rotto il ghiaccio». Fino ad arrivare a scrivere un romanzo tutto suo in italiano. Chissà come sarebbe stata la vita di Jana se a quella telefonata del 1999 avesse risposto: «No, non accettiamo».

Andrea Sambugaro

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