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Ecco come agiva la famiglia Multari

La villa di Domenico Multari messa all’asta e venduta a un indianoDomenico Multari
La villa di Domenico Multari messa all’asta e venduta a un indianoDomenico Multari
La villa di Domenico Multari messa all’asta e venduta a un indianoDomenico Multari
La villa di Domenico Multari messa all’asta e venduta a un indianoDomenico Multari

A ciascuno il suo territorio. Con confini delineati e obbligo di ottenere l'«autorizzazione» del boss quando si varca il limite territoriale. È quanto emerso a Vicenza, durante il processo all'ultimo dei Multari rinviati a giudizio, Carmine. Il pericoloso gruppo criminale facente capo alla famiglia Multari, legato alla cosca della 'ndrangheta Grande Aracri di Crotone, controllava un territorio ai confini fra l'Area Berica e il Basso Veronese. Il clan Giardino, invece, era concentrato in città, a Sommacampagna e a Sona. Fuori provincia, nel Bassanese e nel Padovano, a dettare legge c'era la famiglia Bolognino. Ciascuna 'ndrina era specializzata in ambiti specifici: edilizia, movimento terra, cartellonistica stradale, pulizie. Il controllo del territorio delle famiglie era fondamentale a tal punto che, quando si verificavano degli sconfinamenti da parte di altri clan, era necessario avvertire la cosca di riferimento. È una delle novità emerse nell'ultima fase del dibattimento a carico della famiglia Multari, che vede imputati Carmine Multari, 56 anni, di Lonigo, nel Vicentino, e il cittadino moldavo Dimitru Tibulac, 29 anni. I capi di imputazione sono estorsione, violenza per costringere a commettere reati, trasferimento fraudolento di valori, resistenza a pubblico ufficiale, incendio, minaccia, tentata frode processuale: tutti reati aggravati dall’essere stati commessi anche avvalendosi di modalità mafiose. Nell'ultima udienza, in Tribunale a Vicenza, il tenente colonnello Enrico Risottino, in servizio dal 2015 alla sezione anticrimine del Ros di Padova, ha spiegato al collegio presieduto da Lorenzo Miazzi come nacque l’operazione «Terry», coordinata dalla procura distrettuale antimafia di Venezia. Le indagini presero il nome da uno yacht ormeggiato al porto di Alghero. Il mezzo era oggetto di un contenzioso tra Francesco Crosera, proprietario del cantiere nautico di Quarto d’Altino, e un cliente che chiedeva gli fossero restituiti parte dei due milioni di euro spesi a causa di presunte irregolarità. Crosera contattò i Multari per far bruciare lo yacht e «risolvere» così il problema delle perizie. L’azione però per ben due volte non andò a buon fine. Al secondo tentativo, c'erano i carabinieri ad attendere i malviventi. I Multari erano già molto conosciuti: tutti sapevano quale era il loro ruolo e quali fossero i favori che si poteva chiedere loro. Al termine dell'operazione «Terry», nel febbraio del 2019, sono state eseguite 20 perquisizioni, sette misure cautelari (di cui cinque in carcere e due ai domiciliari) nei confronti di 15 diverse persone indagate. A gennaio di quest'anno quattro membri della famiglia Multari sono stati condannati. Per il giudice veneziano David Calabria, Domenico Multari, 59 anni, i suoi fratelli Fortunato, 52, e Carmine, 56, i figli Antonio, 25, e Alberto, 30, accusati di estorsione e resistenze a pubblico ufficiale e di associazione a delinquere di stampo mafioso, hanno agito con percosse, minacce, «avvalendosi della forza intimidatrice dell'associazione 'ndranghetista dei Grande Aracri». Il capostipite Domenico, detto Gheddafi, è rinchiuso in carcere a Bologna. Il processo a Carmine Multari non si è ancora concluso perché non ha scelto il rito abbreviato come gli altri, optando invece per quello ordinario. Il colonnello Risottino ha raccontato al giudice che quando le famiglie dovevano agire per recuperare i crediti contattatavano i clan referenti per zona. Accadde ad esempio che i Giardino si fermassero alla pizzeria «Al focolare» di Multari, in centro a Zimella, per chiedere aiuto in occasione di una loro attività nella sua zona di rifermento. La pizzeria è chiusa da un anno e mezzo. Diversa la sorte per la villa dei Multari in via Marcabella, fra Bonaldo e Santo Stefano. L'abitazione posta sotto sequestro per indagini precedenti a «Terry», oggetto di curiosità e timori, ha finalmente trovato un acquirente. La prima vendita giudiziaria aveva avuto una valutazione molto alta, 600mila euro. Ed è andata deserta, così come quelle successive. Infine il prezzo è sceso drasticamente a 70mila euro. Il rilancio d'asta ha fatto aumentare il costo a 167 mila euro e l'immobile è stato aggiudicato ad un imprenditore indiano. •

Paola Bosaro

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