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L'unica vera storia di Luigi Motta, Salgari-bis di paese

ANTEPRIMA. La prigionia dello scrittore, degna di un Sandokan, nel solo libro che mai pubblicò. Passò la vita a scrivere avventure esotiche e finì poi protagonista di una odissea rocambolesca. Inedita
Emilio Salgari e Luigi Motta in una fotografia senza data, ora alla Biblioteca Civica di Verona
Emilio Salgari e Luigi Motta in una fotografia senza data, ora alla Biblioteca Civica di Verona
Emilio Salgari e Luigi Motta in una fotografia senza data, ora alla Biblioteca Civica di Verona
Emilio Salgari e Luigi Motta in una fotografia senza data, ora alla Biblioteca Civica di Verona

Negli ultimi anni dell'Ottocento frequentava assiduamente i corsi dell'Istituto Nautico di Genova, con il sogno di diventare capitano di lungo corso, un ragazzo veronese, alto, gioviale, ridanciano e con la passione dell'avventura. Si chiamava Luigi Motta ed era nato, nel 1881, a Bussolengo. Già in questa scelta scolastica, stava ricalcando le orme dell'altro veronese, padre del racconto di avventure, Emilio Salgari. Anche Motta, destinato a diventare il suo epigono nella letteratura avventurosa, a un certo punto abbandonò l'istituto, non ottenne mai il titolo di capitano e si buttò a capofitto nella letteratura. Era un lettore di Verne e lo attirava anche l'aspetto scientifico che il romanzo d'avventure aveva preso nei volumi dello scrittore francese.
Così di sera, a tavolino, nella sua stanzetta d'affitto squallida, chiamava a raccolta il fantasma di Sandokan, ma anche del Capitano Nemo e, dell'ingegnere Cirus Smith e scriveva cartelle su cartelle.
Nel 1900 l'editore libraio Donath di Genova bandì un concorso per il miglior libro d'avventura: premio, la pubblicazione. Durante il viaggio da Verona a Genova, (spesso Luigi faceva la spola tra la sua sede lavorativa e la città natale) nella valigia si era rovesciata la macchinetta del caffè e il manoscritto si era macchiato di petrolio. Una vergogna! Luigi lo consegnò a Donath, fingendo che non fosse suo, ma di un certo Motta, suo amico. Dopo circa un anno ricevette la notizia della vittoria al concorso. Il libro con il titolo [FIRMA]I flagellatori dell'oceano uscì con una dedica a Salgari che generosamente rispose consegnando all'editore una presentazione.
CARRIERA Era un vero e proprio battesimo: inizia così una carriera lunga e fortunata. Il volume era illustrato da Pipein Gamba, uno dei più noti illustratori delle opere salgariane ed ebbe subito una grossa fortuna. La presentazione di Salgari segnò l'inizio di una amicizia che Motta volle sempre ricordare, anche dopo la tragica scomparsa dello scrittore, suicida nel 1911. Dopo il successo dei Flagellatori, abbandonò Genova, i suoi lavoretti saltuari e andò ad abitare a Verona in via Gran Czara (oggi via Oberdan), al numero 16. Lì diede vita a un periodico di viaggi e avventure, Attorno al mondo, come era di moda alla fine dell'Ottocento. Poi sfornò subito una serie di romanzi per l'editore Speirani di Torino, tra cui I misteri del mare Indiano e Il raggio naufragatore.
I misteri del mare indiano era presentato come un grande romanzo «scientifico- fantastico», un'incerta anteprima del termine fantascientifico che non era ancora stato inventato. Il filone aveva le sue radici nelle letture di Jules Verne, cui Motta dedica Il raggio naufragatore, riconoscendosi suo allievo.
Con l'appoggio di Achille Tedeschi, fece poi il suo ingresso trionfale nella casa editrice Treves, con cui fu a contratto fino al 1920. Aveva soltanto trent'anni. Quando nel 1905 muore Jules Verne e nel 1911 Emilio Salgari, Motta diventa il successore ed erede dei due scrittori avventurosi, lasciando a miglia di distanza gli altri scrittori popolari coevi. Era un abile artigiano che mescolava in giuste dosi avventura e scientismo, come nel suo Jatangan fiammeggiante che riprendeva l'arma degli eroi salgariani, ma con l'aggiunta della recentissima scoperta e utilizzazione del radium. Ma aveva anche il genio della pubblicità e sapeva sfruttare i motivi di moda per trasformarli in successi personali. L'Occidente d'oro per esempio riecheggia La fanciulla dell'West di Giacomo Puccini che all'epoca trionfava sui palcoscenici della lirica.
BELL'UOMO Lavoratore accanito, scriveva per giornate intere, e sfornava un po' di tutto: romanzi soprattutto, ma anche novelle, articoli di cronaca, adattamenti teatrali e, negli anni più maturi, fumetti, sceneggiature, anche per il cinema. Fra le sue attività ci fu a lungo l'adattamento o la composizione di operette, un genere di moda fino alla seconda guerra mondiale. In società aveva successo, anche con le signore ed era il classico bell'uomo, alto, elegante, un po' corpulento, con una bella voce di baritono che esibiva nei salotti.
Ma le tre donne che contarono effettivamente nella sua vita furono la madre, amatissima, la prima moglie Bianca Polzi, che morì nel 1924 e Amelia Razza con cui convisse a lungo e che sposò nel 1946. Il lavoro lo assorbiva molto. Pubblicò un centinaio di romanzi (ma la bibliografia esatta non è ancora stata stesa), alcuni, che diceva tratti da trame salgariane, con il doppio autore, Salgari- Motta, molti altri esclusivamente di sua invenzione.
DISAVVENTURE Gli anni che precedettero la guerra mondiale furono anni fortunati per Motta: era uno scrittore famoso e ben pagato e un imprenditore e autore teatrale di largo successo.
Come tanti si era iscritto al Partito Nazionale Fascista. Però nel 1938, dopo la promulgazione delle leggi razziali, venne arrestato, tradotto a San Vittore di Milano, per aver sparlato del regime in pubblico.
Liberato per l'intervento di alcuni amici altolocati, riprese la sua attività giornalistica. Allo scoppio della guerra si ritirava per lunghi periodi a Montemarino, vicino a Palazzolo, nelle campagne di Bussolengo, sulle colline moreniche che si affacciano sul Garda. Lì aveva un podere, vigneti, un giardino pieno di rose.
Lì era destino che vivesse, dopo tante avventure inventate, l'unica avventura vera della sua vita.

Paola Azzolini

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