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Palabek, nell’inferno di
rifugiati in fuga dalla
guerra del Sud Sudan

La notizia che si sussurra da qualche settimana è che anche qui, a dieci chilometri, il governo ugandese ha in mente di allestire un campo profughi per la gente che fugge dalla guerra che insanguina il Sud Sudan. Un conflitto che dal 2013 ad oggi ha causato oltre 100 mila vittime e costretto alla fuga più di 2 milioni di persone. Per i comboniani e per l’ospedale sarebbe il problema nel problema. «Già fatichiamo ad affrontare la povertà nella regione, figuriamoci se arrivano migliaia di disperati». Kalongo ha già vissuto l’esperienza di un gigantesco campo profughi durante la guerra civile: fame, terrore, risse, malattie e alcolismo. Ramon indica il monte Oret, la montagna del vento: «Dove ora si vede la boscaglia c’era la tendopoli dei profughi. Si erano messi contro la parete e dietro l’ospedale sperando che la struttura sanitaria facesse da scudo ai guerriglieri assassini». L’idea è quella di arrivare a Palabek, a circa cento chilometri da Kalongo, dove da tempo c’è una delle più grandi strutture di accoglienza dell’Uganda. Lì non operano i comboniani ma i Salesiani di San Giovanni Bosco e Ramon conosce il responsabile. Il campo è immenso ma non così disorganizzato. I profughi sono decine di migliaia ma sparsi su un territorio vasto. «Ad ognuno il governo affida una piccola porzione di terreno per coltivare qualcosa. Sarebbe impensabile fornire quotidianamente cibo a quella massa di gente, così si punta all’auto sussistenza». A prendersi cura dei disperati oltre ai Padri, alcuni volontari delle Ong ma soprattutto tanto personale africano. Molte testimonianze parlano di una situazione al limite della sopravvivenza in alcune aree del campo e di violenze ma con i nostri occhi non possiamo arrivarvi. «Il problema è la promiscuità - spiega Padre Ramon durante il viaggio in macchina -. Già in una situazione normale abbiamo un tasso di malati di Aids di quasi il 20% figuriamoci in certe condizioni». In realtà arrivano voci di una possibile tregua in Sud Sudan e questo dà qualche speranza. Subito dopo la nostra partenza, infatti, viene firmato l’accordo tra il presidente Salva Kiir e il suo rivale Riek Machar per porre fine alla guerra. Sarà davvero una firma risolutiva? PADRE RAMON è fiducioso ma traspare anche scetticismo: «Speriamo in bene. Ma da secoli in quella regione ci sono tribù che comandano e altre che sono i loro schiavi. Ad un certo punto questi si siedono a un tavolo e decidono di fondare un nuovo Stato e di essere uguali. Non regge». L’unico collante tra queste tribù in guerra è la religione cristiana. Gli islamici sono a nord, nel Sudan delle vecchie carte geografiche. Chiediamo della presenza islamica. Se ci sono dei problemi di convivenza. «Sono pochi i profughi di religione islamica, ed anche in Uganda l’Islam fa pochi proseliti. Se ci sono dei problemi? Non direi. D’altra parte fino a quando loro sono una minoranza li vedi amichevoli e rispettosi delle leggi. È quando diventano maggioranza che cominciano i problemi, perché si inizia con il mescolare la religione con le leggi dello Stato». E della situazione attuale cosa ne pensa un religioso di frontiera? «Molte decisioni vengono prese a tavolino per interessi che non riguardano certo la gente. Qui per fortuna non sono arrivati con forza gli effetti dello sfacelo avvenuto in Medioriente e sulle coste del Mediterraneo. Il Paese migliora piano piano. Ma in Africa siamo abituati a vivere alla giornata, basta poco per far riesplodere un conflitto». •

M.C.

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