<img height="1" width="1" style="display:none" src="https://www.facebook.com/tr?id=336576148106696&amp;ev=PageView&amp;noscript=1">

Satana si è fermato a Verona, qualche volta

L’attrice Sharon Tate
sulla copertina di «Stars and
Stripes» (a sinistra)
e di «Army Times» negli anni
dal 1960 al 1962, quando
abitava a VeronaIl Christkindlmarkt di piazza Walther a Bolzano. Ha 27 anni
L’attrice Sharon Tate sulla copertina di «Stars and Stripes» (a sinistra) e di «Army Times» negli anni dal 1960 al 1962, quando abitava a VeronaIl Christkindlmarkt di piazza Walther a Bolzano. Ha 27 anni
L’attrice Sharon Tate
sulla copertina di «Stars and
Stripes» (a sinistra)
e di «Army Times» negli anni
dal 1960 al 1962, quando
abitava a VeronaIl Christkindlmarkt di piazza Walther a Bolzano. Ha 27 anni
L’attrice Sharon Tate sulla copertina di «Stars and Stripes» (a sinistra) e di «Army Times» negli anni dal 1960 al 1962, quando abitava a VeronaIl Christkindlmarkt di piazza Walther a Bolzano. Ha 27 anni

(segue dalla prima pagina) (...) ignifugo e che quindi non sarebbe stato lambito dalle fiamme dell’old sparky, la vecchia scintillante. Era la sera del 9 agosto 1969 quando i seguaci della setta di Manson fecero irruzione, a Los Angeles, nella villa di Roman Polanski e della giovane moglie, l’attrice Sharon Tate. Il regista era assente, si trovava a Londra, dove aveva appena finito di girare Rosemary’s baby. La Tate venne trucidata a coltellate con il suo parrucchiere e altri due amici. Tre mesi prima, la madre aveva visto in sogno la scena dell’uccisione. La quarta vittima fu il bimbo che la diva ventiseienne, all’ottavo mese di gravidanza, portava in grembo. Sulla tomba di famiglia dei Tate, la lapide ricorda anche lui, Paul Richard Polanski, mai nato. L’indomani, una seconda mattanza: l’imprenditore Leno La Bianca e sua moglie vennero uccisi con oltre 40 colpi di forchetta. La consorte di La Bianca si chiamava Rosemary, come la protagonista del film girato dal marito dell’assassinata più famosa. Coincidenze. Simili a quella degli avvisi mortuari listati a lutto e sormontati da una croce nera, di solito usati per i funerali, recanti la scritta «Rosemary’s baby is born» (il figlio di Rosemary è nato) stampata in rosso sangue, che mi capitò di fotografare da cronista dell’Arena nel 1984. Non si è mai saputo chi li avesse affissi per strada a Verona in occasione del 2 novembre, commemorazione dei defunti. Con il senno di poi, direi che furono una macabra pagliacciata di qualche gruppo esoterico o underground. Se li avesse visti un altro Manson, il Marilyn che si è esibito nel luglio scorso al Castello Scaligero di Villafranca, li avrebbe prontamente adottati per promuovere i suoi concerti. Il Belpaese di 30 e passa anni fa non era abituato a questo genere di provocazioni. Giusto per capire come cambiano in fretta i costumi nazionali: Rai 1 spedì subito una troupe televisiva nella città di Romeo e Giulietta, sospettata d’essere avvolta dal fumo di Satana. Seguì una diretta di Italia sera, programma di approfondimento condotto da Enrica Bonaccorti. Mi ritrovai mio malgrado davanti alle telecamere nelle vesti di demonologo. Mi toccò scortare gli inviati della tv di Stato in giro per località della provincia dove si vociferava che venissero celebrate nottetempo le messe nere. In studio a Roma c’era il professor Vittorino Andreoli, che si limitò a parlare del diavolo così come lo aveva conosciuto dai disegni dei suoi pazienti in manicomio. Sei anni dopo, lo psichiatra mi avrebbe confessato che Belzebù aveva tormentato la sua infanzia: «Lo cercavo nell’armadio, sotto il letto, nell’oscurità, dappertutto. Era il demonio che avevo conosciuto a dottrina: astuto, con la coda, munito di forcone, sempre pronto a mettertelo nel didietro». Finché un giorno, verso i 10 anni, i genitori fecero trovare in camera al piccolo Vittorino un canarino al posto del crocifisso: «Volevano salvarmi dall’ossessione in cui mi ero rifugiato. Ma io odiavo il suo cinguettio, perché mi impediva di pregare. Pochi giorni dopo me lo tolsero dai piedi. E ricominciai con le orazioni per scacciare il diavolo. Se mi distraevo, mi autopunivo raddoppiandole, in una ripetizione rituale». Il riferimento dell’epigrafe al film Rosemary’s baby s’intrecciava con la storia della nostra città. Appurai infatti che Sharon Tate negli anni Sessanta aveva abitato qui. Il padre Paul James Tate, capitano dell’esercito statunitense, si era trasferito a Verona con la moglie Doris Gwendolyn Willett per prendere servizio alla Setaf (Southern european task force), che aveva il suo quartier generale nella caserma Passalacqua. Durante gli studi, la ragazza dava lezioni di nuoto a Cisano. Era bellissima già allora. Nel 1960 apparve succintamente vestita da cowboy a cavallo di un missile su Stars and Stripes, il quotidiano edito negli Usa dal dipartimento della Difesa. Due anni dopo concesse una replica in biancheria intima sulla prima pagina dell’edizione europea di Army Times. Le porte del cinema furono dischiuse alla Tate nel 1962. Venne arruolata a far da contorno ad Anthony Quinn e Vittorio Gassman per le scene dei combattimenti fra gladiatori in Barabba di Richard Fleischer, girate nell’Arena spacciata per Colosseo. Quello stesso anno ebbe una particina come comparsa in un altro film girato a Verona, Le avventure di un giovane, diretto da Martin Ritt, interpretato da Paul Newman e Susan Strasberg. Alla fine del 1962 la famiglia Tate tornò negli Stati Uniti. Ma non al completo: la giovane Sharon seguì a Parigi un attore incontrato sul set di Barabba, che successivamente la portò con sé a Hollywood. Lì nel 1967 conobbe Roman Polanski, che l’anno dopo la sposò. In Rosemary’s baby, il regista avrebbe voluto affidare a Sharon Tate la parte di Rosemary Woodhouse, madre del figlio che crede nato morto ma che in realtà suo marito, un attore satanista, ha ceduto a una setta di adoratori del diavolo in cambio del successo. I produttori le preferirono invece Mia Farrow. L’anno seguente la Tate fu uccisa. Ce n’era abbastanza per indagare su quel manifesto funerario che, mediante un’inversione - questa sì diabolica - della nascita in morte, annunciava l’arrivo a Verona del figlio della Rosemary cinematografica. Silvano Cerpelloni, direttore della Nettezza urbana, aveva dichiarato che all’alba gli spazzini trovavano i resti di messe nere officiate addirittura nel sottopasso pedonale di Porta Vescovo, poi chiuso al transito. E c’erano le ripetute denunce di cittadini che avevano trovato tracce di riti satanici nel forte militare abbandonato vicino al Castello di Montorio, nel parco di San Giacomo e in Basso Acquar. Si appassionò al caso il veronese Renzo Allegri, inviato speciale di Gente. Venne a trovarmi anche lui e così mi toccò ripetere il giro delle sette chiese (sconsacrate). Una, se non ricordo male, era a Bardolino. In una villa diroccata alle porte della città gli mostrai un altare rudimentale con zampe e teste di gallina, sangue rappreso, candele mezzo consumate, un paramento sacro tagliuzzato, un crocifisso appeso a testa in giù al quale erano state spezzate braccia e gambe a martellate. È tutto riferito nei primi due capitoli di Cronista all’inferno, il saggio di 300 pagine che Allegri pubblicò per Mondadori nel 1990 prendendo lo spunto da quell’inchiesta giornalistica. Nel libro, a pagina 15, è anche riportato il racconto di un testimone dei fatti accaduti nel fortilizio in rovina di Monte di Sant’Ambrogio, che dalla Valpolicella strapiomba sulla Valdadige: «Erano le dieci e mezzo di sera. In paese c’era la festa dell’Avis. In sette-otto, ragazzi e ragazze, siamo saliti sul monte. Dalla strada abbiamo visto, su ogni feritoia, su ogni muro, su ogni anfratto del forte, lumini accesi. C’erano un centinaio di persone, abbigliate con camicioni e cappucci come quelli del Ku Klux Klan, la setta razzista statunitense. Unica differenza, il colore delle tuniche: bianche quelle del Ku Klux Klan, nere quelle delle persone nel forte. Cantavano strane nenie, quasi un lamento. Sembrava latino, o forse tedesco. C’erano anche delle donne. Si sentivano voci femminili. Poi hanno dato fuoco alla croce e noi siamo fuggiti». Il ragazzo e alcuni suoi amici tornarono al forte il giorno dopo: «Abbiamo trovato un bambolotto di pezza. Sul tronco c’era scritto “Jesus”; aveva spilli infilzati nella testa, nel cuore e nelle gambe». Fantasie di ragazzi? Non proprio: i carabinieri trovarono riscontri concreti. E con me monsignor Ilario Salvetti, canonico della Cattedrale e moralista, fu esplicito: «Purtroppo devo dire che è in spaventoso aumento il numero di coloro che si associano a queste sette sataniche per compiere ogni sorta di nefandezze. So con certezza dove e come avvenne la profanazione di un’ostia consacrata. D’altronde, quando l’uomo non cammina sulla strada tracciata da Cristo, è inevitabile che presto o tardi finisca per cadere nelle braccia del diavolo». In seguito mi sono dovuto occupare varie volte del signore delle tenebre. Ricordo in particolare un’impressionante intervista con don Giuseppe Capra, esorcista salesiano che fino al 2013, anno della morte, ricevette i posseduti nella cripta del santuario di Maria Ausiliatrice, a Torino. Mi descrisse così la sua lotta con il maligno: «È un braccio di ferro prolungato, nel quale cerca con tutti i mezzi d’indebolirmi. Si trasforma da accusato in accusatore, mi dà del peccatore. Mi ricorda fatti che sono lontanissimi nella mia memoria o allude a colpe reali. Allora gli dico: io mi sono confessato ieri, e tu quand’è che ti confessi? Reagisce con un’esplosione di odio. Grida: “Mai! Mai mi umilierò a questo! Mai!”. La voce dell’indemoniato è artefatta, tutta la personalità si modifica, il volto si deforma. Satana vuol mostrarmi la sua cattiveria, la sua violenza. A volte mi ferisce con le unghie. In passato sono dovuto ricorrere alle cure dell’oculista». Don Capra mi confermò che vi sono persone dedite all’adorazione diabolica: «È un culto esplicito, direi. Si invoca Satana, lo si adora, si accoglie la sua signoria allo scopo di conquistare poteri. Che sono comunque effimeri, visto che poi si ritorcono contro chi li acquisisce. Perché il diavolo vuole male a tutti, anche ai suoi». L’esorcista mi precisò che il peccato preferito dal suo avversario è quello di superbia: «Satana dice di essere Dio. Se m’inginocchio in preghiera davanti al Santissimo con la persona invasata, strepita: “Anch’io! Anch’io! Anch’io!”. Vuol essere adorato. E quando invoco la comunione dei santi, urla: “Anch’io ho il mio esercito schierato!”. Infatti si vanta di avere molto successo e molti seguaci». L’incontro più inaspettato fu però con un laico, Lorenzo Cappelli, il sindaco più longevo d’Europa: aveva 85 anni e da 55 regnava incontrastato a Sarsina, terra natale di Plauto, sull’Appennino romagnolo, dove il principe delle tenebre deve la sua popolarità a Vicinio, che fu vescovo del paese. Arrivato dalla Liguria prima della persecuzione contro i cristiani scatenata nel 303 dall’imperatore Diocleziano, pare che l’eremita taumaturgo si mettesse al collo una catena con appesa una grossa pietra per aiutarsi a tenere la testa reclinata durante la preghiera. Ogni anno 60.000 pellegrini vanno nella sua basilica a farsi imporre questo collare, particolarmente efficace, secondo la tradizione popolare, contro le possessioni diaboliche. Cappelli era una persona equilibrata e perbene. Si era laureato in fisica a Bologna con il professor Gilberto Bernardini, allievo di Enrico Fermi, il padre della bomba atomica. Per un quarantennio era stato insegnante di matematica e preside. Amico di Federico e Riccardo Fellini, con il fratello del regista aveva condiviso il banco di scuola. Fu per tre legislature prima deputato e poi senatore della Democrazia cristiana. Alla morte di Alcide De Gasperi, toccò a Cappelli lanciare una colletta fra tutte le segreterie provinciali della Dc per comprare un appartamento alla famiglia dello statista morto povero, altrimenti la vedova Francesca e le figlie sarebbero rimaste senza tetto. Cappelli era più che sicuro dell’esistenza di Lucifero. «Ogni tanto chiedo a don Gabriele Foschi, il delegato vescovile per la nostra concattedrale, di mettere anche a me il collare di San Vicinio», mi confidò. «Trent’anni fa vidi come agiva il maligno su una donna. Ci volle la forza di quattro uomini per trascinarla in basilica. Urla cavernose... Lei non ha idea di come cambia la voce. Gente analfabeta che si mette a parlare lingue sconosciute. Monsignor Ettore Fabbri, studioso di greco e latino che per quasi mezzo secolo fu l’unico esorcista, mi diceva: “Il diavolo tutte le notti viene a scuotermi il letto”. Gli indemoniati affidati alle sue preghiere vomitavano grumi di capelli e petali di rosa. Il prelato cercava di distruggere quella robaccia dandole fuoco, ma non c’era verso che bruciasse». Gli obiettai che poteva trattarsi di sindromi psichiatriche. «Non lo so», scosse la testa. «So che il mio amico padre Ernesto Balducci scrisse la tesi di laurea su una contadina che aveva tenuto in osservazione per anni. Proveniva dalla provincia di Frosinone eppure era in grado di zittire i sarsinati, rinfacciandogli per filo e per segno i peccati che avevano commesso. Tanto che il vescovo, a un certo punto, diede ordine di praticare gli esorcismi solo a porte chiuse, per non creare imbarazzo tra i fedeli». www.stefanolorenzetto.it

Suggerimenti