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Quei figli che non trovano più maestri

Vivo a Verona, una città per tanti motivi bella e di eccellenza ma nella quale parecchi giovani, anche di famiglie agiate sembrano poco felici e addirittura capaci di atti trasgressivi intollerabili. Come educatore posso dire che questa contraddizione non nasce come diretta conseguenza della pandemia da Covid-19 anche se certamente le restrizioni hanno pesato, sia per l’isolamento sia per il lungo obbligo digitale cui sono stati costretti. La situazione del resto, si è ancor più aggravata per il fatto che anche noi adulti siamo stati coinvolti ed impegnati nel rivedere tutto il nostro approccio comunicativo con enti, strutture ed ambiti lavorativi. Il fenomeno però, come la cronaca ci testimonia, risale molto più indietro nel tempo. Lo spaccio delle droghe pesanti/leggere, lo sballo dei «sabato sera», i sassi dai cavalcavia, ecc., non ce li siamo dimenticati e ben sappiamo non essere fenomeni in esaurimento per natura. È in questo senso che le motivazioni più attendibili vanno, a mio parere, ricercate nelle più radicate miserie affettive cui tante famiglie di fatto crescono i loro figli. Non parlo per colpevolizzare o per assolvere chicchessia ma per cercare di capire di più e per trovare insieme idee e procedure, idonee e possibili, di approccio al problema. Anche la scuola non riesce ad agire con l’efficacia di un tempo e ciò induce a pensare che la malattia, insieme alla cura, sia estremamente grave. Non penso e non ho alcuna volontà di «ritorno ad un passato che non c’è più». Lascio ai devoti le semplificazioni: i valori che non ci sono più, le contaminazioni malefiche dei migranti ecc. So bene che anche le istituzioni religiose, pur con le loro intramontabili scritture, vivono momenti difficili e che sono alle prese con un ripensamento di ruolo epocale imposto dalla modernità. Io provo solo a fare alcune considerazioni che gli esperti diranno se più vere che false o viceversa. Il ceto veronese a me sembra spaccato in due sostanziali blocchi: uno che più conta e benestante ed uno altrettanto dinamico, laborioso e produttivo, pressato e molto competitivo. Si tratta, nella mia approssimata valutazione, di una distribuzione statistica poco «gaussiana» ma ugualmente accomunata da un forte complesso o bisogno indotto di «fare soldi». I benestanti di successo, per farne sempre di più, i meno abbienti delle fasce medie e marginali, per inseguire traguardi di dignità sempre più effimeri e sfuggenti. Non a caso, a Verona, come anche in tutto il Nord Est produttivo, la macchina consumistica gira molto bene condizionando e coinvolgendo, nel bene come anche nel male, un po’ tutti. Mi si dirà che così per ogni altra realtà urbana ma, io credo che a Verona si sperimenti in modo più esasperato questa apparente contraddizione. La gran parte dei nostri giovani, supportati da tante opportunità e da tanti mezzi, si trovano spogliati di ogni strumento di riconoscimento. Privati di ogni plausibile identità/ verità, non sanno come costruirla/trovarla. I più fragili ed esposti, cadono travolti da solitudini e da paure indicibili. Sommersi da beni e da strumentazioni insensate vagano nell’abbandono alla ricerca di qualcuno che li ascolti, li conduca in una qualsivoglia visibilità dove singolarmente, abbiano diritto di cadere e di rialzarsi, di agire e parlare. Delusi si costringono e consegnano al web; assumono la rete come presenza invocata e rassicurante seppure virtuale. I nostri figli e nipoti vivono la complessità dell’immediato e dell’oggi, circondati da tanti professori e professionisti ma non sanno dove trovare qualificati ed esemplari maestri. Abitano le nostre case ma troppo spesso, anche se non sono «di colore», sono per noi, più stranieri e muti dei migranti che onnipresenti, incontriamo imploranti davanti ai supermercati di sotto casa. Angelo Botturi VERONA

Angelo Botturi

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