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L’uomo che faceva la tv per Dio

Ettore Bernabei in una delle sue ultime apparizioni televisive su Tv 2000, l’emittente dei vescovi
Ettore Bernabei in una delle sue ultime apparizioni televisive su Tv 2000, l’emittente dei vescovi
Ettore Bernabei in una delle sue ultime apparizioni televisive su Tv 2000, l’emittente dei vescovi
Ettore Bernabei in una delle sue ultime apparizioni televisive su Tv 2000, l’emittente dei vescovi

(...) tanto che a viale Mazzini arrivarono gli operai a imbottirmi le porte dell’ufficio».

Aveva un caratterino che te lo raccomando, il novantacinquenne Bernabei, morto l’antivigilia di Ferragosto mentre si trovava in vacanza con la famiglia, che fra tutte le imprese della sua vita è stata di sicuro una delle più riuscite. Le cronache gli attribuivano sentenze spietate, scandite in varie occasioni (urlando, presumo) all’indirizzo dei collaboratori: «Ricordatevi che davanti alla tv ci sono 20 milioni di coglioni». E anche: «I telespettatori sono 20 milioni di teste di cazzo». E ancora: «La tv deve educare 20 milioni di analfabeti». E infine: «Gli italiani sono come ragazzi delle elementari».

Gli contestai le abrasive asserzioni una per una, il giorno in cui mi ricevette nel suo appartamento all’ultimo piano di un palazzo della Roma umbertina, sulla via Flaminia. Bernabei riconobbe d’aver pronunciato solo la quarta. Ma poi ammise con onestà che qualche comparazione anatomica forse gli era sfuggita: «Non posso escluderlo. Da giovane ero incline a servirmi di parole che si riferivano a parti significative del corpo. È un uso colorito molto fiorentino e io sono nato a Firenze da un ferroviere e da una casalinga».

Il rude frasario di un tempo faceva a pugni con l’ambiente circostante. Sulla scrivania l’ex dg teneva un leggìo da messa con i Vangeli aperti e un crocifisso supino. Accanto, su un tavolino, c’era la Liturgia delle ore. Tutt’intorno foto di udienze papali e opere d’arte di soggetto esclusivamente religioso. Fra icone, bronzi, serigrafie e gessi, contai ben 11 Cristi, ma non mancavano Madonne, Natività e santi.

Da soprannumerario dell’Opus Dei, Bernabei aveva trasferito questa sensibilità religiosa nel lavoro, dapprima in Rai, dove la sua gestione fu caratterizzata dalla realizzazione degli Atti degli Apostoli di Roberto Rossellini e del Gesù di Nazareth diretto da Franco Zeffirelli, e in seguito nella casa di produzione Lux Vide, da lui fondata, che ha portato sui teleschermi una quarantina di fiction tratte dalla Bibbia o ispirate alle vite di santi e pontefici, cui se ne sono aggiunte altrettante legate a vicende storiche o a personaggi immaginari più popolari di quelli veri, basti pensare a Don Matteo.

Bernabei era intriso di fede in ogni sua fibra. «In casa recitiamo il rosario tutte le sere, insieme con la nostra governante Palmina», mi spiegò. Leggeva il breviario. Glielo aveva consigliato Giuseppe Dossetti, il leader della sinistra democristiana che si dimise da deputato, prese i voti e si ritirò in un convento della Terrasanta.

Il giovane Bernabei era cresciuto alla scuola di Giorgio La Pira, il «pazzerello di Dio» accusato di simpatie bolsceviche. A metterlo sotto l’ala del sindaco di Firenze era stato il suo parroco, don Raffaele Bensi, che convertì al cattolicesimo e condusse al sacerdozio l’ebreo Lorenzo Milani, il priore di Barbiana. Amintore Fanfani scelse il giornalista come suo uomo di fiducia e lo tenne ai vertici della Rai per 13 anni, dal 1961 al 1974, obiettivo in precedenza fallito con un altro pupillo, Filiberto Guala, primo amministratore delegato dell’ente di Stato.

Guala era un ingegnere che aveva per consigliere spirituale il futuro Paolo VI. Fra il 1954 e il 1956 impose un severo codice di autodisciplina ai giornalisti radiotelevisivi, dal cui lessico furono espunti sostantivi tipo «seno», «parto», «verginità», «membro» (anche se riferito a un componente del Parlamento). Il pio manager reclutò uno squadrone di talenti che comprendeva Umberto Eco, Furio Colombo, Gianni Vattimo, Piero Angela, Fabiano Fabiani, Angelo Guglielmi, Enrico Vaime, Adriano De Zan, Raffaele Crovi.

Con il suo dinamismo, Guala finì per indisporre i mandarini di viale Mazzini. I quali gli tesero una trappola diabolica. «Convinsero i nipoti di papa Pacelli a far vedere al Santo Padre il varietà del sabato sera, affinché si rendesse conto che la tv era uno strumento di perdizione dominato dai comunisti», mi raccontò Bernabei. «Deve sapere che Pio XII non guardava mai la televisione. Una sera fu portata nel Palazzo apostolico la scatola magica. Prima dell’inizio dello show si presentò in via Teulada un ometto, che ordinò alle ballerine di scoprirsi le gambe. Apriti cielo! Il lunedì uscì sull’Osservatore Romano un violento corsivo contro il governo, nel quale si sosteneva addirittura che le immorali coreografie del varietà violavano i Patti Lateranensi. Guala si limitò a raccomandare che nella puntata successiva le ballerine si rivestissero. Ma il sabato dopo un altro ometto arrivò a via Teulada e diede disposizioni affinché le danzatrici indossassero dei mutandoni chiusi fino alle caviglie. L’indomani la stampa laica si scatenò contro i bacchettoni della Rai che prendevano ordini dal Vaticano. L’incolpevole Guala fu costretto a dimettersi e si fece frate trappista».

Anche Bernabei era specialista in epurazioni, ma non ci lasciò le penne neppure quando osò estromettere da Canzonissima un attore che 35 anni dopo sarebbe stato insignito del premio Nobel. «Della censura a Dario Fo vado orgoglioso», rimarcò con forza. «C’era stato uno sciopero degli edili per protestare contro gli infortuni sul lavoro, con scontri in piazza a Roma e poliziotti feriti. E Fo che scenetta va a inventarsi? Un impresario grasso come un porco, con la catena d’oro che gli pende dal panciotto, il quale alla notizia che un suo operaio è precipitato dall’impalcatura fa i salti di gioia e regala un gioiello all’amante, interpretata da Franca Rame. A lei una roba così fa ridere? A me no. Reputai che fosse il massimo del cattivo gusto. Chiesi a Fo di cambiarla. Lui si rifiutò di farlo. Lo cacciai. Non m’importa nulla se poi gli hanno conferito il Nobel. Io quello sketch non lo manderei in onda neppure stasera».

Nelle assunzioni Bernabei ebbe sempre un occhio di riguardo per la Dc. «La proporzione aurea era: tre a noi e due al resto del mondo». Durante il suo mandato fu coniata la formula secondo cui in Rai ingaggiavano un democristiano, un socialista, un comunista e uno bravo. «Ogni anno ricevevo 20.000 raccomandazioni. Non è che li volessi tutti democristiani. Io li preferivo cristiani e basta. Incaricato della selezione era Pier Emilio Gennarini. Gli dicevo: occhio a chi ci prendiamo in casa, Gennarini! E lui: “Tranquillo, direttore, questo è un democristiano di ferro”. E io: ma almeno crede in Dio? Perché che sia democristiano interessa poco, conta di più che sia credente».

L’ex dg della Rai era convinto che la tv fosse «peggio della bomba atomica», se usata male. «È pericolosissima! La sua potenza di suggestione non è neppure misurabile», s’infervorò. «Inculca modelli di comportamento, spaccia la fantasia per realtà. Prenda Beautiful, l’espressione più sublime della virtualità. Lì fanno vedere che tu puoi cambiare la moglie ogni settimana. Ma non è mica così, sa? Vivaddio, nessuno può cambiare moglie tutte le settimane. Io la mia me la tengo stretta da 52 anni».

Ha avuto otto figli dalla stessa donna. Mi mostrò orgoglioso un ritratto di Giovanni XXIII con la dedica scritta a mano, tratta dal salmo 127, che il pontefice gli aveva inviato all’arrivo del settimo: «La tua moglie come vite feconda nella tua casa, i tuoi figli come virgulti d’ulivo».

Uno degli otto ha sposato Sydne Rome. Chiesi al suocero dell’attrice: che cos’ha provato vedendo sua nuora fotografata nuda su Playboy? Un fremito di stizza gl’increspò le labbra. Se avesse potuto farlo, mi avrebbe strozzato all’istante. «Sydne è una brava attrice, una buona moglie e un’ottima madre», tagliò corto. Ebbi così la conferma che la famiglia, per lui, era tutto.

A un certo punto della conversazione aprì un armadio zeppo di agende: «Nel 1956 cominciai a tenere questi diari giorno per giorno. Ma poi mi accorsi che quello che nell’immediato mi sembrava un grande evento, già a breve distanza di tempo si rivelava ben poca cosa. Smisi». Ci affanniamo tanto ma di noi non resterà traccia nel cosmo, gli suggerii. «Ecco, ecco... Io aggiungerei con Dante Alighieri: “State contenti, umana gente, al quia; ché se potuto aveste veder tutto, mestier non era parturir Maria”. Ogni cosa è transitoria. L’uomo si agita tanto e non sa che è Dio a condurlo».

Devo qui ricredermi: di Ettore Bernabei resterà traccia. E che traccia.

Stefano Lorenzetto

www.stefanolorenzetto.it

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