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Fine vita, ma è vera libertà?

Era inevitabile che la pronuncia della Corte Costituzionale sul «fine vita» desse il via ad un intenso dibattito sul tema, discussione che peraltro avrebbe potuto spiegare le ali ancora un anno or sono considerato che, per quanto è dato comprendere, la decisione della Consulta ha ripreso i rilievi in precedenza formulati con l’ordinanza interlocutoria n. 207/2018. Moltissime le possibili riflessioni. È doveroso (e non semplicemente naturale) che nel dialogo gli aspetti normativi siano intersecati da quelli morali: la Costituzione è stata anche il frutto della sapiente traduzione in termini normativi di valori ideali e morali. Quindi, sebbene l’obiezione di coscienza paia ancora essere vista, nel campo della bioetica, come una sorta di «personaggio in cerca di autore» (Ezio Mauro, La Repubblica), occorre rammentare che siamo al cospetto di un vero e proprio diritto costituzionalmente rilevante, già esistente nell'ordinamento giuridico e tutelato dall’art. 2 oltre che dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Ue, per cui da esso non si può prescindere. Anche assumendo per vero che «quando si parla dei diritti della persona, sia come singolo sia nelle relazioni familiari, capita sempre più spesso che la violazione dei principi costituzionali non derivi dall’approvazione di una legge ma dalla sua assenza» (Carlo e Cesare Rimini, Il Corriere della Sera), allora non saluterei con troppo entusiasmo il ruolo suppletivo legislativo che pare andare sempre più assumendosi la Corte Costituzionale, che rimane pur sempre giudice della «legittimità costituzionale delle leggi» (art. 134 Cost.) e non sindaco delle omissioni normative. Certamente la Corte ha tracciato un perimetro ben definito nel dettare le condizioni in cui può ritenersi ingiustificata la persecuzione della condotta di aiuto al suicidio (art. 580 c.p.), per cui ben difficilmente la pronuncia può essere accusata di aprire la via ad un «suicidio di Stato» (ed in ciò concordo con Vladimiro Zagrebelsky, La Stampa). Purtuttavia è evidente il rischio che viene a crearsi allorquando tra le condizioni vi è la «intollerabilità delle sofferenze psicologiche», essendo di fatto impossibile sondare con certezza la mente e l'animo umani (la sofferenza fisica, in qualche maniera, può invece essere misurata). Del resto l’esperienza fatta in situazioni assimilabili insegna come in tali locuzioni finiscano per essere ricomprese le situazioni più varie e diverse. Che quello di autodeterminarsi fino alle estreme conseguenze sia un diritto soggettivo ce lo dicono oggi espressamente sia il legislatore che la giurisprudenza della Corte Costituzionale. È tuttavia lecito chiedersi- sempre nell’ottica di un franco confronto- se tale diritto sia effettivamente espressione di libertà, perché «Quale libertà infatti può esprimere chi vive nelle catene di sofferenze insopportabili? I vincoli da cui chiede di essere liberato sono quelli della sofferenza» (Giuseppe Lorizio, Avvenire). Dovremmo perlomeno ammettere che dinnanzi al mistero della morte, parimenti che dinnanzi al mistero dell'amore (Marina Marcolini), siamo tutti balbettanti. Agostino Bighelli VERONA

Agostino Bighelli

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