<img height="1" width="1" style="display:none" src="https://www.facebook.com/tr?id=336576148106696&amp;ev=PageView&amp;noscript=1">
La posta della Olga

Quando ci dividevamo tra la Standa e l’Upim

Coìn (dal nome del fondatore), non Còin anche se fa più fino - scrive la Olga - venne dopo. Prima arrivarono in città Upim e Standa che prima del fascismo si chiamava Standard, nome foresto cui Mussolini tagliò la coda per italianizzarlo. Come per tutte le cose c’era chi preferiva l’uno all’altra e viceversa. Era ancora un mondo di desideri semplici, si ballava col juke-box e l’unico modo per telefonare da fuori casa erano le cabine piene di cicche. Il primo acquisto che il mio Gino fece alla Standa fu un portacenere a molla che ancora oggi tiriamo fuori quando ci sono ospiti fumatori. Lui andava più volentieri alla Standa in via Leoni che all’Upim di via Mazzini perché diceva che c’erano le signorine più belle (chiamarle commesse era considerato riduttivo). Venivano assunte in base a selezioni che privilegiavano l’aspetto, il portamento e la grazia. Se capitasse oggi si griderebbe allo scandalo. Gli squattrinati studenti, sia maschi che femmine, ci andavano per fare flanella tra i banchi. Un conte corteggiò la signorina più bella e la sposò e per molto tempo in città si tessero svenevoli commenti sul fiabesco evento. Alla Standa, diversamente dall’Upim, oltre all’abbigliamento e a oggetti per la casa, si vendevano anche generi alimentari. Ricordo quella mattina in cui mi chiusero dentro con tutti gli altri clienti perché una signora si era infilata una bondoléta sotto la pelliccia e non voleva tirarla fuori. L’Upim praticava prezzi più convenienti, vi lavorava una mia coetanea di nome Giusy che appena mi vedeva mi spruzzava addosso tutti i profumi che aveva sul banco. «Sito sta in casìn?» mi chiedeva il mio Gino quanto tornavo a casa. Nelle giornate di pioggia entrambi i grandi magazzini erano affollati ma i campanellini dei registratori di cassa squillavano come nelle giornate di magra. Nei reparti di giocattoli c’era chi scuoteva le bambole per farle parlare. S’impiegava il tempo anche così, in attesa che smettesse di piovere.

Silvino Gonzato

Suggerimenti