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La posta della Olga

L’altro festival veronese. Canzoni al Masenìn

Benvenuto Sanremo - scrive la Olga - ma avremmo fatto volentieri a meno di tutto quel cancan propagandistico che la Rai ci ha propinato per mesi. E allora ecco finalmente i rapper e i trapper che mi sono simpatici come le ortìghe, i supertatuati, gli sfigurati, gli scappati dal riformatorio, gli svalvolati, tutta gente normale insomma, e poi gli imbalsamati (male), i paleozoici e i dissepolti vivi. Proprio in concomitanza con Sanremo è partito il Festival della canzone popolare veronese e dintorni. Non credo alla coincidenza ma piuttosto a una studiata malizia degli organizzatori. Comunque tra il primo Festival e il secondo io e il mio Gino abbiamo scelto senza esitazione il secondo che va in scena per tutta la settimana al teatro Masenìn Royal delle Caroèrse. Se volì che ve diga, sono serate magnifiche e le prossime saranno ancora meglio. Canti e balli del nostro passato, dei nostri vèci e dei vèci dei nostri vèci, in omaggio alle nostre radici e legati al lavoro della terra, alla quotidianità e ai corteggiamenti, mi hanno fatto rugolare più di una lacrima dai òci al decolté. Un’attempata ma vispa signora della Lessinia ha cantato “La bèla la impasta i gnochi” accompagnata dalla fisarmonica del Sissa Cantoni che a un certo punto si è appisolato e hanno dovuto scrollarlo perché riprendesse a suonare. Il loggione è esploso di gioia quando un certo Brusapaión vestito alla tirolese ha intonato “Bruta t… l’è morta imbriaga” mentre dietro di lui un saltellante gruppo di ballo si prendeva a sberle. «Iè cruchi» ha detto il mio Gino. «No, i deve èssar Cimbri» gli ho sussurrato. Ma la canzone che più mi è piaciuta è stata “Amor dami quel fassoletino” cantata da un travestito con le trecce bionde. Il pleibèc ha sollevato qualche disappunto ma a Sanremo succede di peggio, come ha detto il maestro Ociodevéro che ha diretto il pleibèc. Il mio Gino è andato in estasi per “El paracàr”, arietta cantata da un pensionato dell’Anas.

Silvino Gonzato

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