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L'intervista

Oscar Farinetti: «Dare 1.500 euro netti al mese ai giovani, funziona meglio del reddito di cittadinanza»

Oscar Farinetti, 68 anni, fondatore di Eataly, che il 5 ottobre ha inaugurato a Verona il suo quindicesimo punto vendita in Italia
Oscar Farinetti, 68 anni, fondatore di Eataly, che il 5 ottobre ha inaugurato a Verona il suo quindicesimo punto vendita in Italia
Oscar Farinetti, 68 anni, fondatore di Eataly, che il 5 ottobre ha inaugurato a Verona il suo quindicesimo punto vendita in Italia
Oscar Farinetti, 68 anni, fondatore di Eataly, che il 5 ottobre ha inaugurato a Verona il suo quindicesimo punto vendita in Italia

Oscar Farinetti si considera «un quasi». «Mio nonno era mugnaio, prendo il cognome dalle farine. Mio padre era pastaio. Io sono un quasi. A me piace occuparmi di tutto in una maniera quasi approfondita. Sono quasi uno scrittore, quasi un imprenditore, quasi un conferenziere, quasi un poeta, quasi un marito felicemente sposato da 44 anni con la stessa moglie anche se la vedo poco, quasi un padre di tre figli fantastici, quasi un politico, quasi un partigiano nato da un genitore partigiano che però non passò per le armi nessuno. E quasi un artista, come Leonardo da Vinci, il mio mito. Non amo le iperspecializzazioni. Le considero un danno della cultura del Novecento, isolano le persone».

Ora Farinetti è diventato quasi veronese. L’altro ieri era di nuovo in Zai, nell’ex Stazione frigorifera di via Santa Teresa, dove il 5 ottobre aveva inaugurato il 15° Eataly d’Italia e il 46° nel mondo: ha presentato (...) il suo nuovo libro, È nata prima la gallina... forse (Slow food editore). Ci tornerà giovedì prossimo, alle 18.30, con Luca Zaia, governatore del Veneto, per un dibattito su «Politica, imprese e territori».

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Eppure la ghiacciaia degli ex Magazzini Generali, straordinario reperto di archeologia industriale risalente al 1930 che la Fondazione Cariverona ha restaurato con un intervento da 60 milioni di euro affidato all'archistar Mario Botta e che Farinetti ha valorizzato investendone altri 10, non è una meta comoda per il fondatore di questi empori del buono e del bello, visto che il suo quartier generale si trova a oltre 300 chilometri di distanza, nella tenuta di Fontanafredda, famosa per il Barolo, a Serralunga d'Alba.

Nel precedente volume, Never quiet. La mia storia (autorizzata malvolentieri), edito da Rizzoli, non si limitava a parlare di sé, mai tranquillo, ma annunciava d'aver scoperto l'algoritmo della felicità, che poggia per il 90 per cento sulla fortuna e per il 10 sulla bravura ed è così riassumibile: «Il culo sa dove deve andare. Meglio ancora: il culo te lo vai a trovare. Poi ci sono i fattori esogeni, le grandi sfighe: la grandine, il Covid-19, la guerra. Conviene essere fortunati nella vita».

Il «fattore C» tra intuizione e audacia

La sua si snoda all'insegna del va' dove ti porta il culo. Nel 2002 il fondoschiena lo indusse a vendere la catena Unieuro (comprendente Trony) alla britannica Dixons, incassando 528 milioni di euro: «Avevo intuito che il mercato dell'elettronica mutava radicalmente. Se prima vendevo sei apparecchi con sei diverse funzioni, telefonino, pc, fotocamera, videocamera, registratore, organizer, e guadagnavo sei volte, sarebbe arrivato uno strumento con tutte queste funzioni e avrei guadagnato una volta sola».

Nel 2007 il fattore C lo portò a Torino, dove nacque Eataly. Nel 2017 a Bologna con Fico, la Fabbrica italiana contadina. Nel 2020 di nuovo a Torino, con Green Pea, «perché il pisello è rotondo come la Terra ed è verde, e a noi restano solo 20 anni per salvare il pianeta», 15.000 metri quadrati di prodotti ecologici, con le margherite fotovoltaiche e le pale eoliche disegnate da Renzo Piano, foderati con lo stesso legno che Antonio Stradivari utilizzava per i suoi violini, quello delle foreste sradicate dall'uragano Vaia che nell'ottobre del 2018 devastò le Dolomiti e le Prealpi venete. «Chi mai avrebbe inaugurato una roba del genere nel dicembre 2020, in piena pandemia?».

 

Però lo scorso 21 settembre il controllo di Eataly è passato per 200 milioni di euro al gruppo Investindustrial del finanziere Andrea Bonomi.
A noi Farinetti ogni 15 anni piace cambiare. Sai che noia fare la stessa cosa per tutta la vita? Avrei potuto cederla per intero a fondi stranieri. Ma Eataly non è abbandonabile. Bonomi ha comprato il 52 per cento, noi restiamo secondi azionisti con il 22. Mio figlio Nicola è il presidente. Grazie a questa operazione, abbiamo potuto ricomprarci la quota di Eataly Usa, che ora è tornata nostra al 100 per cento.

Ma come va Eataly?
Dall'inizio dell'anno il fatturato è aumentato del 30 per cento. Nella sola Verona facciamo 600 coperti al giorno.

Chi inventò il marchio?
Un'impiegata dello studio di architettura Bartoli, a Piacenza. Entrò in ufficio mentre proponevo al suo principale il nome Eat Italy. «Ma perché non fa una crasi, così suona come Italy?», intervenne. Geniale. Poi scoprii che il brand era già stato registrato da Fabrizio Ferri, il celebre fotografo italiano che abita a New York. In due minuti me lo cedette.

Come mai ha deciso di sbarcare proprio a Verona?
Perché mi ha sempre portato fortuna. Avevo 14 negozi Unieuro nel Triveneto e quello che incassava di più, a parità di metri quadrati, era a Verona. Lo gestivano i fratelli Gianfranco e Ivano Tolio, in seguito divenuti miei soci. Il Veneto e le Langhe, dove sono nato io, sembrano gemelli. Nel secondo dopoguerra erano i due territori più poveri d'Italia, oggi sono i più ricchi. Ci sarà un motivo, no? Qui avevate la pellagra, da noi c'era la malora che dà il titolo al romanzo di Beppe Fenoglio. Nelle case non si poteva mangiare l'aringa: doveva restare appesa alla trave per strofinarci sopra la fetta di polenta. Sono uguali veronesi e langaroli. Hanno il culto del lavoro, non mollano mai.

Era già stato qui?
Da bambino, con i miei genitori, a vedere il balcone di Giulietta. Non mi chieda l'anno.

Che cosa le ricorda Verona?
Le sembrerà strano: Boston, una delle poche città americane con un centro storico.

Chi ha aperto le porte a Eataly?
Lo spazio negli ex Magazzini generali mi fu offerto da Paolo Biasi, all'epoca presidente della Fondazione Cariverona, proprietaria dell'area. Appena lo vidi, me ne innamorai. Il preliminare lo firmammo una decina di anni fa. Poi si è messa di mezzo una burocrazia mostruosa, anche perché si tratta di un bene sottoposto a vincoli ferrei. Devo complimentarmi con Alessandro Mazzucco, attuale presidente di Cariverona. Ha condotto in porto questo sogno con la stessa perizia che in passato dimostrava da cardiochirurgo nei trapianti di cuore. All'inaugurazione ha tenuto un discorso che andrebbe incorniciato.

Ha conosciuto il sindaco?
I sindaci, vorrà dire. Ho cominciato con Flavio Tosi, un bel tipo. Poi Federico Sboarina, sempre corretto. Infine Damiano Tommasi, un volto nuovo. Mi piace da morire. Sono felicissimo che sia stato eletto. È un uomo di poche parole, ma di eccezionale valore.

Tommasi produce vino.
Non lo sapevo. Schivo com'è, non me l'ha detto. Questo me lo rende ancora più simpatico. La gente del vino ha un'umanità forte, che nasce dal rapporto con la terra.

Altri veronesi che stima?
Un'infinità. Francesca Rossi, direttrice dei musei civici. Vincenzo Tiné, soprintendente ad archeologia, belle arti e paesaggio. Marilisa Allegrini con i suoi Valpolicella da sogno. Gabriele Ferron con il suo Vialone nano. Sandro Veronesi di Calzedonia e Signorvino. Elia Rizzo e suo figlio Matteo del Desco. Giancarlo Perbellini, grande cuoco. E la «banda» del Vinitaly, da Giovanni Mantovani a Stevie Kim, coreana cresciuta negli Stati Uniti che dirige la parte internazionale. Tutta bella gente.

Va d'accordo anche con Zaia?
Molto. Appartengo al partito dei governatori e dei sindaci, gente in trincea dalla mattina alla sera. A Roma si fa solo propaganda. Zaia dimostra un amore smodato per il Veneto: «Noi siamo i più bravi nel turismo, nell'industria, nella cultura». Più, più, più... Sembra di sentir parlare Farinetti.

Lei sostiene che Eataly «non è una catena: sono fratelli».
Sicuro, ognuno con una sua fisionomia. Per dire, a Stoccolma abbiamo puntato sui ponti: la capitale svedese ne ha 157. A Trieste sulla bora. A Verona sull'arte. L'idea me la diede Dario Franceschini, ministro della Cultura: «Oscar, tu devi creare Art Eataly». Aveva visto giusto. L'Italia rappresenta solo lo 0,06 per cento della superficie terrestre, però custodisce il 70 per cento dell'intero patrimonio artistico dell'umanità. Siamo appena lo 0,82 per cento della popolazione del globo, però produciamo il 2,5 per cento del Pil globale. Se l'idea avrà successo, la esporteremo.

Mi illustri questa idea.
Negli ex Magazzini generali abbiamo aperto Earth, terra in inglese, ma qui acronimo di Eataly art house fondation. Mi sono affidato a Chiara Ventura, manager culturale di prim'ordine. Al piano terra ci sono tre gallerie di arte contemporanea che espongono opere per lo più di giovani, con prezzi e certificati di garanzia, destinate a rivalutarsi nel tempo. Vieni a fare la spesa o a mangiare e puoi comprartene una. Al primo piano c'è il museo, dove ogni quattro mesi ospiteremo due mostre monotematiche. Cominciamo con 70 opere pazzesche del fotografo olandese Anton Corbijn, che da 18 anni non si vedeva in Italia.

Pensavo che a Eataly la gente venisse per il cibo.
Su 11.200 metri quadrati, all'arte ne abbiamo dedicati 5.000. Ci sono il mercato con circa 15.000 prodotti, di cui un migliaio made in Verona, una cantina con 2.500 etichette, 500 vini, 6 laboratori a vista: panificio, pasticceria, pescheria, macelleria, salumeria e gastronomia. Il must è il ristorante Agricolo sotto la cupola dell'ex ghiacciaia, dove accanto a carne, pesce e verdure si celebra il mantra pasta e pizza. Nell'era della piastra a induzione abbiamo recuperato la cultura ancestrale del forno a legna, ma senza fumi di scarico: vengono abbattuti da un impianto sotterraneo.

In È nata prima la gallina... forse parla di «una primissima caratteristica dei veri ottimisti: hanno un buon rapporto con il tempo». Il suo com'è? 
Mi chiamano a tenere troppe conferenze in giro per il mondo. Ho 68 anni, dovrei rallentare, ma non so dire di no.

Però resta ottimista. 
A differenza del pessimista, ritengo che i problemi si possano risolvere, il che non mi vieta di essere anche realista. Ma pensi che vita di merda sarebbe se fossi convinto del contrario. Ottimismo e pessimismo sono sentimenti che riguardano il futuro, non il presente.

Meglio l'uovo oggi o la gallina domani? 
Scelgo la gallina. Amo il movimento. L'uovo è fatto, è fermo, rappresenta la staticità. La gallina ha creato il marketing.

Ah sì?
Depone l'uovo e lancia un «coccodè» per fartelo sapere. Il contadino la sente e corre a raccoglierlo. Invece il tacchino non parla e così nessuno se lo fila. Un concetto che è molto piaciuto a Philip Kotler, 91 anni, il guru del marketing moderno.

Ha mai sbagliato un colpo? 
Almeno quattro: gli Eataly di Bari, Forlì, Copenaghen e Tokyo. Ma non ho dato la colpa al resto del mondo: li ho chiusi. Ora però nella capitale giapponese ce ne sono tre.

Quanti dipendenti ha a Verona?
Fra i 130 e i 150, tutti locali.

Che qualità cerca in loro?
Lo scopri mangiandoci insieme un po' di sale. Devono aver voglia di studiare, di imparare la filiera agroalimentare: terra, trasformazione, cucina, piatto.

Lei ha proposto 1.500 euro netti mensili di stipendio per tutti.
Funziona meglio del reddito di cittadinanza, che aiuta i poverissimi ma non fa venire la voglia di lavorare. Eataly dà paghe più alte della media e versa anche la quindicesima. Ma lo Stato dovrebbe tagliare le tasse a chi assume.

Che cosa pensa di Giorgia Meloni?
Non penso. Lo farò dopo che avrà governato. Odio i pregiudizi nei miei confronti, quindi non ne nutro verso gli altri. Non ho più voglia di giudicare nessuno. Preferisco aiutare.

Entrerebbe come ministro nel governo di centrodestra? No, in nessun governo. Non sono nemmeno sicuro che sarei capace di farlo, il ministro. Matteo Renzi mi offrì il dicastero dell'Agricoltura. Rifiutai. Mi sentivo inadatto.

A un certo punto lei, un progressista, dichiarò di rimpiangere Silvio Berlusconi. 
Non ho mai avuto antipatia per lui. Trovo che la sinistra si sia scatenata contro Berlusconi in maniera esagerata.

Discute ancora di religione con don Umberto Ciullo, parroco di Roveleto di Cadeo, in provincia di Piacenza? 
Sempre, anche l'altro giorno. È il mio direttore spirituale, insieme con il veneto don Luigi Ciotti. Mi ha fatto innamorare di Luca, il più figo dei quattro evangelisti, quello di sinistra, l'unico che racconta le parabole del figliol prodigo e del buon samaritano e il dialogo fra Gesù e i due ladroni crocifissi con lui. Don Umberto si arrabbia quando gli dico che abbiamo bisogno di meno Chiesa e di più Cristo. Sono un fanatico del Nazareno, lo trovo di un'attualità tremenda.

Però passa per ateo.
Nel 1969 andai dal parroco del duomo di Alba, don Valentino Cattaneo. Avevo 15 anni e la testa piena di Mao e di Psiup. Gli dissi: non so mica se Dio esiste. Lui mi rispose: «Esiste, esiste. Nel frattempo, tu che non ci credi più continua a comportarti bene».

È proprio certo che non rivedrà le persone care che ha perso? Ma figurarsi! Non sono certo di nulla. Il problema dell'umanità è che gli stupidi sono strasicuri, mentre gli intelligenti sono pieni di dubbi, sosteneva Bertrand Russell. Quel forse che segue È nata prima la gallina nel titolo del mio ultimo libro dice tutto. Lì trova due racconti, uno sulla mia nascita e uno sulla mia morte. Due misteri. Non sappiamo perché nasciamo, non sappiamo quando moriremo.

Stefano Lorenzetto

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