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L'intervista

«Dopo "4 Ristoranti" devo mandare via 200 persone al giorno». Parla Sagramoso, il conte-chef

Marcantonio Sagramoso (foto Marchiori)
Marcantonio Sagramoso (foto Marchiori)
MARCATONIO SAGRAMOSO (FOTO MARCHIORI)

È conte palatino, «un titolo nobiliare che non si compra», diretto discendente del comes palatii, l’alto dignitario di corte che presso i Franchi e i Longobardi esercitava la giustizia in nome del sovrano, e non a caso suo padre, Michele Francesco Sagramoso, prima di andare in pensione faceva l’avvocato. Lui, il figlio, Marcantonio di nome e di fatto per via del metro e 80 di statura, si vede ancora come Marchetto, «così mi chiamavano a 18 anni, quando pesavo già un quintalino, allora mi piaceva mangiare sul serio, se lo facessi oggi starei male, ho dovuto perdere 20 chili».

A occhio e croce, Marcantonio Michele Carlo Ugo Maria Sagramoso, titolare e chef delle Cedrare di Illasi, ne ha buttati giù un altro paio fra il 6 e il 9 gennaio, essendo stato costretto a lavorare 18 ore al dì, «con il personale decimato dal Covid e un solo aiuto in cucina». A malincuore, gli è toccato mandare via a bocca asciutta, anzi vuota qualcosa come 200 clienti al giorno, «mai visto un tornado simile, gente che è partita apposta da Firenze per venire a mangiare qui». Miracoli dell’improvviso eccesso di notorietà procuratagli da 4 Ristoranti, il programma condotto da Alessandro Borghese, in onda ogni domenica alle 21.15 su Sky, che nella puntata del 2 gennaio ha incoronato vincitore Sagramoso per il suo brasato fatto con guance di vitello all’Amarone, preparato a cottura lenta, avendo come sfidanti il Bacco d’oro di Mezzane di Sotto (secondo classificato), il Groto de Corgnan di Sant’Ambrogio di Valpolicella (terzo) e la Posta Vecia di Colognola ai Colli (quarto).

 

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Era dal giorno di Natale dell’anno 800 dopo Cristo, cioè dacché papa Leone III incoronò Carlo Magno alla guida del Sacro Romano Impero, che un Sagramoso non si faceva notare da nord a sud dello Stivale. «Siamo di origine tedesca, un mio avo era consigliere dell’imperatore», rievoca il cuoco. Il quale, sia detto a scanso di equivoci, non ha alcunché di altezzoso, semmai è la modestia fatta persona. Marcantonio Michele («in onore di mio padre») Carlo («in onore del padre di mia madre») Ugo («in memoria di un fratello di papà morto giovane in un incidente stradale») Maria («in onore della mamma di mia mamma») è nato il 2 maggio 1972 a Verona, nella Maternità del Policlinico, ma ha sempre vissuto, e abita tuttora, a Illasi, nella magnificente Villa Pompei Sagramoso, costruita a partire dal 1685 su progetto di Vincenzo Pellesina, l’architetto che mise mano anche al Palazzo Canossa di Verona, alla Villa Maffei Sigurtà di Valeggio sul Mincio e alle scuderie di Versailles.

Ha aperto il suo ristorante nel 2005, dentro le serre dove un tempo venivano ricoverati durante l’inverno limoni, cedri e altri agrumi, donde il nome Le Cedrare. Il parco circostante, abbellito da un giardino all’italiana con fontane, vialetti e siepi di bosso sagomate, rappresenta solo una piccola porzione della proprietà, che si estende per 100 ettari, di cui 20 di bosco e i restanti 80 di ulivi e vigneti. E non ha nulla da invidiare ai cicli di affreschi di Giambettino Cignaroli, Francesco Lorenzi e Marco Marcola e alle tele dei pittori settecenteschi, da Simone Brentana a Tommaso e Andrea Porta, che decorano gli interni della magione. «Con la morte di mia nonna, Chiara Pompei, che aveva sposato Antonio Sagramoso, la prima famiglia si estinse».

Oggi nel monumentale edificio abitano i genitori dello chef, Michele Francesco Sagramoso e Marie Hélène Van Spaendonck, olandese di Tilburg. Si conobbero nel 1965 a una festa da ballo a Villa Loredan, a Caldiero. Marcantonio, sposato con Eleonora Gozzo, che alle Cedrare dirige la sala, è il loro unico figlio. Anche la coppia di ristoratori abita nella Villa Pompei Sagramoso, e così pure Orsola e Lapo, ex pubblicitario che oggi scrive libri e dipinge, figli di Ugo, lo zio defunto prematuramente. Per altri sette cugini è il luogo di villeggiatura durante l’estate.

 

4 Ristoranti nel Veronese

 

Ma quante stanze sono?

Dovrei contarle. Un paio di centinaia, credo, di cui solo una trentina occupate, quelle con il riscaldamento. So soltanto che una decina di anni fa, per rifare i tetti, sono serviti 300.000 coppi.

Accipicchia.

Una volta inseguivo la stella Michelin. Ora non più. Per raggiungerla serve una macchina troppo costosa, fatta di attrezzature, dipendenti, comunicazione. Devi avere alle spalle un investitore con il portafoglio a fisarmonica, ma qui l’unico imprenditore sono io.

Beh, almeno i muri sono suoi.

Magari. La villa non è mia. Pago l’affitto.

Perché ha fatto il cuoco?

Fino all’età di 10 anni ho sempre mangiato in cucina. Ero un terremoto e a tavola avrei disturbato gli adulti. Così venivo affidato alla cuoca, la signora Agnese Dal Ben di Tregnago. C’era una panca con un enorme macinino da caffè incorporato. Un giorno ebbi la cattiva idea di usarlo per trasformare il sale da grosso a fino. Rovinato per sempre.

Dove ha studiato?

Medie alle Stimate, due anni al liceo scientifico Messedaglia. Poi, siccome ero una peste, i miei mi mandarono in collegio negli Istituti Filippin di Paderno del Grappa. Ma decisi di mollare. Scandalo in famiglia. Mio padre mi disse: «Ah sì? Allora arrangiati». Per avere qualche biglietto da 10.000 lire in tasca, il sabato e la domenica andavo a lavorare nel ristorante La Panoramica di Colognola ai Colli. Fu l’inizio della gavetta. In realtà più tardi mi diplomai all’Istituto Alberghiero di Chievo. Il primo stage lo feci da Fabio Tacchella alla Pesa di Stallavena, ora chiusa da tanto tempo. Ci rimasi quattro anni. Poi per altri quattro con Sergio Mei al Four Seasons di Milano. Poi tre al Cip’s club dell’hotel Cipriani della Giudecca, a Venezia. E uno a Barbuda, l’isola delle Antille, nel K Club aperto dalla stilista Mariuccia Mandelli, in arte Krizia. Era il resort di lusso preferito da Lady Diana.

E da chi ha imparato di più?

Da Mei per la scelta degli ingredienti. Da Tacchella per le tecniche di cucina. Da Gualtiero Marchesi per il rispetto delle materie prime: a volte andavo a dargli una mano all’Albereta di Erbusco.

Ha acceso l’interesse di Alessandro Borghese, il cuoco trasformatosi in presentatore tv.

L’organizzazione dei 4 Ristoranti mi ha cercato quasi un anno fa per sapere se ero interessato alla gara per la miglior cucina nelle dimore storiche della Valpolicella.

Che c’entrava? È in Val d’Illasi.

Eh, lo so, i puristi hanno storto il naso. Ma se si guarda la carta enologica, questa è Valpolicella allargata, infatti produco anche le uve per l’Amarone, che consegno alla Tenuta Sant’Antonio dei Castagnedi, a Colognola ai Colli. E comunque non mi pare che Romano Dal Forno, che produce Amarone e Recioto a 3 chilometri da qui, sia l’ultimo arrivato nelle Doc della Valpolicella.

 

Marcantonio Sagramoso

 

La tenzone di Sky sembra artefatta: costringe gli chef in gara a commenti malevoli sui colleghi davanti alle telecamere.

La tv tira fuori il peggio, è vero. Un po’ di attrito serve, altrimenti i 4 Ristoranti diventerebbe un documentario. Ma non c’era nulla di preparato in quello che si è visto. Ci hanno lasciati liberi di esprimerci, senza darci suggerimenti.

Come impiegherà i 5.000 euro che ha vinto?

Tanto par scominsiar g’ò ancora da tirarli. Li reinvestirò qui dentro. Ho vinto anche un furgone Peugeot e un anno di assicurazione sul ristorante. Ma il regalo più grosso me lo sono fatto da solo: 15 giorni di ferie per tirare il fiato dopo il delirio dell’Epifania.

Come risponde ai maligni che dicono: «Per partecipare alla trasmissione bisogna pagare»?

Si sbagliano. L’organizzazione è seria. Ti versa subito 400 euro per coprire in parte le perdite del ristorante, visto che per realizzare la puntata ti tocca chiuderlo per un giorno.

Giovani che vogliono fare i cuochi ne trova?

Con molta fatica. Appena gli dici che si sgobba anche il sabato e la domenica, scappano.

Qual è l’aspetto più duro?

Tenere tutto sempre perfettamente pulito e in ordine. È un impegno gravoso, eppure fondamentale. Meglio pane e salame, però dove ti puoi specchiare.

E il lato più piacevole?

La creatività. Quando un cliente non guarda il menu e mi dice: «Fa’ tu». Significa che si fida. È molto bello. Un grande complimento. Ma anche un piacere effimero: le to robe tuti se le magna, spariscono subito.

Lei è un nobile che non disdegna i lavori manuali. Anni fa venni a cena qui, alla fine acquistai 6 bottiglie del suo olio e lei insistette per venire di persona a caricarmele sull’auto.

Non me lo ricordo. Però corrisponde a quello che ho sempre pensato: bisogna avere l’umiltà di essere ignoranti e l’orgoglio di essere umili.

Si considera ignorante?

Sì, sempre. Altrimenti come farei ad andare avanti? Solo chi si sente ignorante non smette mai di essere curioso.

E la sua umiltà in che modo si manifesta?

Se qualcuno vuol venire a mangiare qui però mi dice che non ha i 50-60 euro, gli rispondo: vieni lo stesso.

Quanti ulivi possiede?

Circa 2.000. Ma non ho il frantoio: porto le olive da Bonamini, qui a Illasi.

A che ora si alza la mattina?

Alle 7.30. Vado a letto alle 2.

Dove pranza nel giorno libero?

A casa mia.

Cucina lei?

Mai. No l’è la me arte. Provvede mia moglie. Io sporco, faccio casino.

Ma andrete pure a cena da qualche parte, ogni tanto.

Sì, alla Stazione di Casteldario per il risotto col pessìn. O da Fabrizio Bicego, nella trattoria Gabri e Giorgio a Nogarole Vicentino, vicino a Chiampo, per le gallinasse.

Che cosa sono?

Le beccacce. Adoro la selvaggina, anche perché sono un cacciatore. Attenzione, però: detesto chi va in Albania ad ammazzare 3.000 allodole. Io caccio solo quello che posso mangiare. Non ho mai ucciso per uccidere.

È disposto a tirar fuori qualsiasi cifra quando va al ristorante?

Ah, sì. I 200 euro da Massimiliano Alajmo alle Calandre di Rubàno o da Massimo Bottura all’Osteria Francescana di Modena li ho spesi volentieri.

Clienti famosi ne ha?

Ho avuto il piacere di spadellare per Guido Bertolaso, all’epoca capo della Protezione civile, la cui famiglia paterna abitava a Cazzano di Tramigna, e per Federica Pellegrini. Mia moglie dice che veniva sempre anche don Luigi Maria Verzé, fondatore dell’ospedale San Raffaele di Milano, con gli amici dell’associazione Sigilli che ha creato sul monte Tabor qui a Illasi, suo paese natale, ma io non me lo ricordo, perché sono sempre recluso in cucina.

Chi è il collega che stima di più?

Enrico Crippa del Piazza Duomo di Alba. Perché non se la tira, non è uno sbruffone.

Che cosa non deve mai mancare in cucina?

L’olio extravergine d’oliva. Quando porto a spremere le olive, ne faccio fuori una fondina mentre è ancora caldo, pucciandoci il pane.

Il piatto della domenica?

Il bollito con la pearà che mia madre, eccellente cuoca, ha imparato a fare dalle amiche veronesi.

Ha figli?

Ludovica, 9 anni.

Mi saprebbe dire perché i ragazzi di oggi stravedono per i cibi giapponesi e il poké hawaiano?

Sono più colorati, belli da vedere. Ma fra un sushi e due fette di cotechino con il purè, Ludovica starebbe senz’altro sul secondo piatto.

Come ha fatto a sopravvivere ai lockdown provocati dal Covid?

Avevo messo qualcosa da parte. I 15.000 euro di ristori arrivati dal governo hanno coperto a malapena le bollette dell’elettricità.

Tripadvisor è una risorsa o una fregatura per i ristoratori?

Di sicuro una risorsa. Ma qualcuno ci mette troppa cattiveria. Farebbe comodo una guida degli idraulici per parlar male di chi non sa aggiustare i tubi. Perché io vengo giudicato e loro no?

Quando non lavora, che fa?

Il falegname. Costruisco casette sugli alberi nel bosco.

A che età vorrebbe ritirarsi?

A un’età decente per potermi godere un po’ la vita. Intorno ai 65 anni, diciamo.

Il piatto che nella sua carriera le è riuscito meglio?

Una coscia di coniglio farcita, 20 anni fa, cotta in un liquido ottenuto dalla spremitura degli scalogni mista a champagne, servita caramellata. Aveva un sapore non facile, dolce, salato e affumicato.

Meglio risi e bisi o risotto col tastasal?

(Risata fragorosa). Bella domanda.

È dura, no?

Durissima. Il secondo. Anche se questa è zona del pisello verdone di Colognola, dobbiamo essere onesti: il primo raccolto intorno a Pasqua è eccellente, ma il secondo no, la buccia diventa legnosa.

Meglio il lavarello o l’aragosta?

Il lavarello. Meglio ancora il carpione, ma nel Garda è ormai introvabile. E l’anguilla. Anca la tenca no l’è mia mal.

Meglio il tiramisù o la pastafrolla?

La pastafrolla. Il tiramisù lo hanno violentato. Un cuoco ci mette i Pavesini invece dei savoiardi, un altro lo serve «destrutturato»... Ma basta! Lassìlo star, ’sto pòro dolce! Le ricette sono ricette, vanno rispettate. Ormai servirebbe un disciplinare per ogni cosa, qui in Italia. Ecco perché i francesi in cucina ci battono: noi siamo indisciplinati.

Meglio la pastissada de caval o il fegato alla veneziana?

La pastissada.

Meglio l’Amarone o il Soave?

E me lo chiede? Mi scusi, sa, ma di che colore è il vino nei quadri antichi? Rosso. Anzi, nero..

Stefano Lorenzetto

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