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Verona racconta

Massimo Falconi, il chirurgo che salvò Fedez: «Il tumore al pancreas che combatto da una vita mi ha tolto mia moglie»

Il medico veronese spiega come si manifesta questo terribile male, come prevenirlo e le armi a disposizione per combatterlo
Il chirurgo Massimo Falconi con la moglie Nora Sartori, anche lei medico, scomparsa nel 2023 per un tumore al pancreas
Il chirurgo Massimo Falconi con la moglie Nora Sartori, anche lei medico, scomparsa nel 2023 per un tumore al pancreas
Il chirurgo Massimo Falconi con la moglie Nora Sartori, anche lei medico, scomparsa nel 2023 per un tumore al pancreas
Il chirurgo Massimo Falconi con la moglie Nora Sartori, anche lei medico, scomparsa nel 2023 per un tumore al pancreas

Lui, Massimo Falconi, chirurgo. Lei, Nora Sartori, chirurga. Entrambi impegnati su un fronte che spesso trova nel bisturi un'arma spuntata: il tumore del pancreas. Entrambi cresciuti alla scuola del professor Paolo Pederzoli, al Policlinico di Verona, dove si erano conosciuti da specializzandi in medicina.

Il pancreas li ha uniti, il pancreas li ha divisi: Nora Sartori è morta nel maggio scorso proprio per un tumore del pancreas. Aveva appena 57 anni. È rimasto solo il professor Falconi, in questa casa sulla collina di Montecchio, da dove lo sguardo spazia oltre la Valpolicella, dal lago di Garda fino alla Pianura padana. «Persino Falco, il nostro doberman, ha perso la compagna di giochi Frida».

Sì, certo, gli resta il suo lavoro di primario dell'Unità di chirurgia del pancreas all'ospedale San Raffaele di Milano, un'équipe di 18 persone fra medici e specializzandi. Gli resta la direzione del Pancreas translational and clinical research center dell'Irccs, dove si trapiantano pancreas e reni. Gli resta il ruolo di coordinatore in un'équipe che conta un centinaio di medici, biologi, ricercatori, nutrizionisti. Gli resta la cattedra di professore ordinario di chirurgia all'Università Vita-Salute San Raffaele. Gli restano le lezioni e i suoi 600 studenti. Gli restano le cariche di presidente emerito dell'Aisp, l'Associazione italiana studio pancreas, e dell'Enets, la Società europea dei tumori neuroendocrini. Gli restano i 727 studi, molti pubblicati da riviste prestigiose, quali Lancet e Nature. Gli resta la fama di aver salvato la vita a Federico Leonardo Lucia, in arte Fedez, il rapper che due anni fa postò su Instagram le foto dello sbrego di 30 centimetri dallo sterno all'ombelico, a separare i tatuaggi da maori sul torace, e anche quelle con la moglie, l'influencer Chiara Ferragni, abbracciata al marito nel letto d'ospedale.

Fedez e Massimo Falconi il medico veronese che l'ha operato
Fedez e Massimo Falconi il medico veronese che l'ha operato

Ma quando il venerdì sera Falconi, 64 anni, torna quassù, a Montecchio, non gli resta nulla. Ad aspettarlo trova solo la solitudine e il rimpianto. «Ho sofferto molto nella mia vita, sa?», sorride dolente, il tono di voce rassegnato, le fedi di matrimonio appese alla collanina d'oro. «Figlio unico, persi mio padre nel 1983, al quarto anno di università, e mia madre nel 2000, quando ancora non ero sposato. E nove mesi fa Nora. Ho dovuto trasformare il dolore in qualcosa che mi spingesse ad andare oltre. Oggi ho la presunzione d'aver capito che non impari dai tuoi successi, ma dai tuoi insuccessi».

Si spieghi meglio.

Elabori il lutto solo se lo trasformi in un'opportunità. Ero uno studente svogliato, ma dopo la morte di papà capii che non potevo più ingannarlo, mi misi a studiare giorno e notte, inclusi sabati e domeniche, e mi laureai con 110 e lode. Persa mia madre, compresi che dovevo mettere radici e mi sposai. Ora che il destino mi ha strappato anche Nora, spero di diventare un uomo migliore.

In che modo?

La vita ha tre stagioni: impari, ti affermi, restituisci. Sto cercando di restituire. Anche se mi considero agnostico, mi resta la religiosità di fondo appresa frequentando l'asilo e le elementari dalle suore della Sacra Famiglia di Brenzone.

È nato sul Garda?

No, a Verona, nella clinica Sant'Anna di via Marsala, fondata nel 1948 dal ginecologo Giambattista Pomini. Mio padre Mariano aveva già 45 anni quando venni al mondo. Era un colonnello dell'esercito, che il papà contadino, privo di mezzi, aveva mandato a studiare in seminario. Si laureò in legge e partì volontario per la guerra in Albania. Dopo l'8 settembre 1943 restò fedele al re e fu internato in vari lager. Stava per morire, ricevette l'estrema unzione. Invece si salvò. Tornò dalla Germania che pesava 42 chili. Del suo arrivo a Balconi di Pescantina ricordava che scese affamato dalla tradotta e gli fu offerta una pesca. Divenne ufficiale di collegamento della Nato a Palazzo Carli, in via Roma, sede delle Ftase. Lì conobbe mia madre, Ester Tovena, trevigiana di Pederobba, che insegnava l'italiano ai militari statunitensi.

Lei sembrava destinato a una luminosa carriera a Verona.

Ho passato 30 anni accanto al professor Pederzoli, dalla laurea fino al 2012. Fu mio testimone di nozze. Nel 2009 mi mandò in chirurgia all'ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar, in convenzione con l'università, due giorni a settimana. Ma qualcosa alla fine s'inceppò. Scelsi di andare come primario all'ospedale universitario Le Torrette di Ancona. Ci rimasi tre anni, fino al 2015, quando fui chiamato al San Raffaele di Milano.

Conosceva il fondatore, don Luigi Maria Verzé?

Lo incrociai mentre lavoravo a Negrar. Volle incontrarmi alla Fondazione Tabor, allora proprietaria del San Raffaele, a Illasi, suo paese natale. A far da tramite fu la sua sovrintendente sanitaria, Gianna Zoppei, originaria di Bovolone.

Che cosa resta di don Verzé al San Raffaele?

Quando ci arrivai, si respirava ancora molto la sua presenza. Oggi l'ospedale appartiene al gruppo San Donato della famiglia Rotelli, è un'azienda con le sue regole economiche, che non erano certo tra le priorità di don Verzé, mi dicono coloro che hanno lavorato con lui.

Sua moglie condivise con lei questi trasferimenti?

No. Ma era lei che mi cercava le case in affitto nelle città in cui mi trasferivo per lavoro. A Milano mi avevano offerto un appartamento in un residence di via Olgettina, vicino al San Raffaele, ma lei preferì trovarne un altro in via Fratelli Cervi. Nora rimase sempre al Policlinico, però dovette lasciare la chirurgia del pancreas e passò a operare i tumori della tiroide con il professor Paolo Brazzarola, un caro amico.

Finché non fu costretta a occuparsi del proprio pancreas.

Si diagnosticò il tumore da sola, nel dicembre 2020. Aveva da 15 giorni il mal di stomaco. Una collega le disse: «Facciamo un'ecografia». La sera la sottoposero a una Tac. L'indomani piombò a Milano con questa amica. Uscivo dalla sala operatoria. La rivedo anche adesso in controluce nel corridoio. Chiesi: che succede? Mi mise in mano un cd-rom, mi abbracciò e scoppiò a piangere. Guardai le immagini della Tac: era il male contro cui avevamo lottato tutta la vita. E non era operabile.

Che faceste?

Persino in una circostanza così drammatica e dolorosa, cercammo i lati positivi, che non c'erano. Fu lei ad aiutare me. Nora, nata a Molveno, era una trentina solida, coraggiosa. Sopportò sei mesi di chemioterapia con una dignità immensa. La risposta alla cura fu buona. Si poteva tentare un intervento. Ci fu chiaro fin da subito che non potevo essere io a eseguirlo. Ma nella disgrazia eravamo in qualche modo dei privilegiati. La affidai al chirurgo Ugo Boggi, un luminare del pancreas, che opera a Pisa.

L'operazione andò bene?

Sì. Ma dopo 90 giorni ci fu una recidiva. Su 30 mesi di malattia, 23 li passò con la chemio.

Morì al San Raffaele?

No, su quella poltrona. (Indica un angolo del salotto, il più illuminato dal sole, affacciato sul giardino). Rimpiango di averla sposata tardi e quindi di non aver potuto avere un figlio con lei. Ora riposa nel cimitero che guarda il lago di Molveno.

Quello del pancreas è il peggiore dei tumori?

Uno dei peggiori, purtroppo. Non siamo ancora capaci di cambiare il destino dei pazienti. Riusciamo solo a migliorare la loro qualità di vita e ad allungargliela un po': circa un anno dalla diagnosi.

Perché è così letale?

Perché è biologicamente infido. Colpisce un organo profondo, poco esplorabile. Si manifesta con sintomi tardivi, quando la malattia è già diffusa. Ha una terribile capacità di creare metastasi mentre ancora è di piccole dimensioni.

Di quali sintomi parliamo?

Il primo campanello d'allarme è l'aumento della glicemia in assenza dei fattori di rischio riconoscibili. Esempio: quando si alza in un soggetto magro oppure in un diabetico che all'improvviso non riesce più a controllarla con i farmaci. Poi un dolore alla bocca dello stomaco che tende a irradiarsi verso il dorso e l'insorgenza dell'ittero, riconoscibile dalla sclera, la parte bianca dell'occhio, che diventa giallastra.

Si può fare qualcosa per prevenire questo tumore?

Il primo fattore di rischio è il fumo, e glielo assicura uno che, ahimè, fa fuori ogni giorno un pacchetto di sigarette Ms. Va evitata l'obesità, privilegiando la dieta mediterranea: un'alimentazione sbagliata, ricca di grassi e zuccheri, provoca uno stato infiammatorio permanente dell'organismo. Bisogna ridurre al minimo il consumo di alcolici. Quello che emerge dalla nostra casistica, tuttavia, è che l'8 per cento delle neoplasie presentano mutazioni genetiche. Sono quest'ultime a favorirne l'insorgenza.

Quante persone colpisce?

Le stime parlano di 95.000 deceduti ogni anno in Europa. La forma più comune, l'adenocarcinoma pancreatico, è la quarta causa di morte per tumore, destinata a diventare la seconda entro il 2030, soprattutto a causa dell'invecchiamento della popolazione.

C'entra l'età?

Sì. Di fatto più avanziamo negli anni e più le nostre cellule accumulano errori. Vale per tutte le neoplasie, ma in particolare per quelle del tratto gastroenterico. A 60 anni l'incidenza nella popolazione generale è di 12 casi ogni 100.000 persone, ma a 80 anni è di 30 casi, cioè quasi triplicata. Ogni anno in Italia si ammalano di tumore al pancreas 17.500 soggetti e circa 15.000 muoiono.

In passato, però, l'aspettativa era più breve.

A cinque anni dalla diagnosi, sopravvivevano 9 persone su 100. Adesso sono 12. La chirurgia risolve solo nel 10-15 per cento dei casi e 30 pazienti su 100 a cinque anni dall'intervento sono ancora vivi ma con la malattia in corso.

Fedez ce l'ha fatta.

Lo considero guarito. Il suo era, per fortuna, un tumore neuroendocrino, quindi meno aggressivo.

Scoperto come?

Il rapper si sottopone spesso a controlli medici. Aveva una strana tosse. Ha chiesto una Tac. Il radiologo è sceso un po' sotto i polmoni e ha capito che qualcosa non andava nel pancreas.

Perché s'è fatto operare proprio da lei?

Mi ha detto che a segnalargli il mio nome era stato Gianluca Vialli, anche se il calciatore fu operato di tumore al pancreas non al San Raffaele, bensì nella clinica Humanitas.

Di che armi disponete oggi, a parte la chirurgia?

Solo della chemioterapia e della radioterapia.

Ho letto che lei collabora con i ricercatori americani della Johns Hopkins University di Baltimora che stanno studiando la possibilità di scoprire il tumore del pancreas da un semplice esame del sangue, così ha scritto Science.

Sì, e anche di ovaio, fegato, stomaco, esofago, colon retto, polmone e seno. È stata un'analisi condotta su 1.005 pazienti che avevano già ricevuto la diagnosi di uno di questi tumori, non ancora in fase metastatica, ed erano stati operati. Ma la ricerca sui marcatori specifici del sangue è appena agli inizi.

Il professor Pederzoli si è ritirato, il suo successore Claudio Bassi è morto prematuramente. Chi resta a Verona per il tumore del pancreas?

La scuola. Era il centro chirurgico d'eccellenza in Europa, insieme con quello tedesco di Ulm del professor Hans Berger e del suo allievo Markus Büchler.

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Stefano Lorenzetto

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