<img height="1" width="1" style="display:none" src="https://www.facebook.com/tr?id=336576148106696&amp;ev=PageView&amp;noscript=1">
SANITA'

Il geriatra Trabucchi: «Alzheimer, entro cinque anni avremo un farmaco efficace»

Ottimismo sulla possibilità di curare, in futuro, chi soffre di questa malattia
Il geriatra Marco Trabucchi
Il geriatra Marco Trabucchi
Il geriatra Marco Trabucchi
Il geriatra Marco Trabucchi

«Entro cinque anni avremo farmaci efficaci per la cura dell’Alzheimer». Sono parole che fanno bene al cuore, quelle di Marco Trabucchi, cattedratico veronese, presidente dell’Associazione italiana psicogeriatria. Una previsione che arriva all’indomani della notizia del fallimento dei test sperimentali di un farmaco sviluppato dal colosso svizzero Roche, che avrebbe dovuto aiutare a evitare la demenza dei pazienti al primo stadio della malattia.

 

Professor Trabucchi, questa notizia rischia di far perdere un po’ le speranze a chi soffre di Alzheimer e alle loro famiglie?

Io credo che anche questi fallimenti siano utili, perché hanno permesso di conoscere meglio la malattia e hanno fornito spunti e stimoli a un complesso di ricerche per il futuro.

 

Si sente di fare qualche previsione?

È difficile, nel mondo della ricerca, capire cosa accadrà nei prossimi anni, anche perché c’è sempre di mezzo un po’ di «serendipity», di fortuna. Dal punto di vista razionale, però, mi sento di dire che entro cinque anni avremo un farmaco efficace per la cura dell’Alzheimer. Poi si dovrà capire se rivolto ai pazienti al primo stadio della malattia o in fasi avanzate. Spero di non fare la figura dell’indovino, anche perché in genere io sono una persona prudente, ma è ciò che ritengo sulla base della mia esperienza.

 

Quali consigli si sente di dare a una famiglia che si approccia per la prima volta a questa malattia?

La cosa più importante è avere il coraggio di riconoscere che c’è qualcosa che non va. Spesso le famiglie sono timorose di trovarsi a dover gestire una diagnosi di Alzheimer e così tendono a nascondere la polvere sotto al tappeto.

 

Ma quali sono i sintomi che devono allertare i familiari?

Quando viene da dire “Non è più lui”. Non ci sono sintomi palpabili, ma segnali che solo la famiglia può cogliere: se una persona allegra e serena, ad esempio, diventa improvvisamente triste, ansiosa, irascibile, smette di fare volontariato o di coltivare hobby. In questo caso, è necessario rivolgersi a un medico e consultare un centro per le demenze.

 

Una diagnosi tempestiva porta benefici?

Certamente, da due punti di vista. Innanzitutto, viene spiegato ai familiari quali atteggiamenti adottare. Una persona malata di Alzheimer soffre, perché capisce che è in fase decadente. Pertanto, non ha bisogno di aggressività, ma di qualcuno che la aiuti ad affrontare le difficoltà e, al tempo stesso, ne stimoli l’autonomia. E poi, ovviamente, ci possono essere interventi di tipo clinico. Anche se non esiste un farmaco specifico, ci sono alcune indicazioni da seguire per rallentare l’evolversi della malattia.

 

Qualche consiglio a livello di prevenzione?

Sicuramente l’attività fisica, al primo posto, e la stimolazione intellettuale. Una volta in pensione, bisogna tenere la testa in attività, coltivare interessi, per non rischiare di chiudersi in se stessi.

 

L’Alzheimer è una malattia del mondo contemporaneo?

No, è sempre esistita. Ma in passato si moriva a quarant’anni e non faceva in tempo a svilupparsi. Oggi, nella maggior parte di casi, emerge in età avanzata, dopo i settant’anni, e ci si può convivere dai due anni fino anche ai quindici: c’è un’alta variabilità individuale.

 

In questo periodo di tempo, come si deve comportare la famiglia?

Nel corso della malattia si incontrano fasi diverse, con aggravamento dei sintomi, allettamento, che possono avere anche velocità diverse: i familiari devono essere in grado di adattarsi e gestire queste situazioni.

 

E laddove manca una famiglia?

Il problema è proprio questo. Finché ci sono i figli che possono fornire supporto è tutto più semplice, ma sempre più spesso i nostri pazienti sono soli o hanno solo il coniuge, a sua volta anziano, che difficilmente può reggere anche solo la fatica fisica che una malattia come questa comporta. È una situazione drammatica. Se facciamo sempre meno figli, tra 30 anni chi assisterà le persone anziane? 

Manuela Trevisani

Suggerimenti