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Il presidente dell'Aifa

Covid, Palù: «Quarta dose solo agli immunodepressi. Il virus è un errore di laboratorio»

Il presidente dell’Aifa, Giorgio Palù
Il presidente dell’Aifa, Giorgio Palù
Il presidente dell’Aifa, Giorgio Palù
Il presidente dell’Aifa, Giorgio Palù

«La quarta dose? Solo per i soggetti immunodepressi. Per gli altri aspettiamo. Stiamo andando verso la primavera. Tutti i parametri epidemici sono in decrescita. Somministrare dosi ripetute ha significato solo per aumentare rapidamente la risposta effettrice, che è naturalmente carente negli immunodepressi, i più esposti alle forme gravi di Covid-19. Nei soggetti immunocompetenti si rischierebbe di compromettere lo sviluppo e l’ampiezza della memoria del nostro sistema immunitario. Infatti, più dosi si somministrano più alte sono le concentrazioni di antigene, il vaccino in questo caso, e più si rischia di rendere una persona anergica. In altre parole, si può indurre tolleranza con mancanza di reattività immunologica». Giorgio Palù, presidente dell’Aifa, professore emerito di virologia, scienziato che fa parte dei più accreditati board mondiali, non ha dubbi. Oggi una quarta dose contro il Covid per chi non è in una condizione di fragilità non è consigliabile né sotto l’aspetto immunologico né sotto quello epidemiologico.

La somministrazione di troppi sieri in tempi ravvicinati congelerebbe le nostre difese, renderebbe incapaci di rispondere all’attacco infettivo e, quindi, di reagire allo stimolo di una sostanza dotata di potere antigene che venga inoculata. «Sì – spiega il prof. Palù -. È un fenomeno noto già dagli anni Settanta. Si chiama tolleranza immunitaria da alto o ripetuto dosaggio di antigene. Se si somministra tante volte un antigene, c’è la possibilità che quell’antigene venga riconosciuto come parte sostanziale self del nostro organismo, con la conseguenza di innescare un meccanismo di soppressione. Perciò, dal punto di vista immunologico, una quarta dose booster avrebbe poco senso per una persona immuno-competente». La dimostrazione più lampante verrebbe dai dati di Israele, esempio virtuoso di laboratorio a cielo aperto, dove la quarta dose non ha fornito i risultati attesi, non ha aumentato in misura significativa la risposta anticorpale, se non per un breve periodo. «La maggior parte delle vaccinazioni si eseguono con tre dosi – dice ancora Palù -. Se guardiamo ai nostri figli è così. Le tre dosi equivalgono a un ciclo vaccinale completo. Il tempo zero è lo stimolo iniziale primer. Poi, dopo un mese, c’è il cosiddetto richiamo challenge che attiva la risposta immunitaria. Quindi, dopo 6 mesi-un anno, c’è il booster che amplifica quella stessa risposta. La terza dose fa rapidamente proliferare le cellule che hanno già riconosciuto l’antigene, in questo caso l’antigene vaccinale, la proteina S di Sars-Cov2. Queste cellule si disperdono nel circolo sanguigno e linfatico, vale a dire nei centri germinativi e nei tessuti, e diventano cellule B e T di memoria, cellule residenti pronte a reagire nel momento in cui il virus riappaia». Insomma, il prof. Palù lo ribadisce: «Meglio attendere. In questo periodo che va verso la bella stagione un virus a diffusione aerea ha poche possibilità di trasmettersi. Studiamo, allora, quali varianti circoleranno. E dovendo pensare, analogamente al vaccino stagionale anti-influenzale per il prossimo autunno, ad un ulteriore booster a una quarta dose, meglio non ricorrere a un vaccino che, come l’attuale, è disegnato su di un virus, il ceppo prototipo di Wuhan, che circolava quasi tre anni fa. Anzi, disporremo presto di vaccini aggiornati sull’antigene S dei nuovi ceppi mutanti, polivalenti e comprensivi di porzioni antigeniche altamente conservate in tutti i beta-coronavirus». 

Quanto poi, all’origine del Covid che vede la comunità scientifica interrogarsi su due possibili scenari, spillover naturale o spillover da laboratorio, il prof. Palù avanza un’ipotesi che, però, necessita di ulteriori conferme. Una pubblicazione su Frontiers in virology del 21 febbraio, da lui firmata con altri 6 scienziati (5 americani e uno svizzero), porterebbe a rafforzare la tesi che a scatenare la pandemia possa essere stato un virus fuoriuscito da un laboratorio cinese. Lo spillover, in questo caso il salto di specie da un virus del pipistrello all’uomo, sarebbe la conseguenza di un incidente di percorso. Un atto non voluto. L’indizio sarebbe la presenza di una caratteristica precisa: «Si tratta – spiega - della presenza nel genoma di Sars-CoV-2 di una sequenza appartenente al gene umano Msh3 che favorisce la replicazione virale e costituisce un fattore diretto di virulenza. Questa sequenza è estranea a tutti i genomi virali conosciuti e dimostra un’ottimizzazione dei codoni per espressione in cellule umane. La probabilità di trovarci dinanzi a un evento casuale è pari a circa 3 su un trilione. Il gene umano Msh3 viene iper-espresso in cellule umane per studi di oncologia sperimentale e per rendere cellule provenienti da tessuti diversi infettabili da parte di virus a cui sono naturalmente refrattarie». 

Franco Pepe

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