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Fondazione Fevoss

La moda inquina, puntiamo all'«eco-fashion». Il primo passo è aprire l'armadio...

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Moda eco-fashion alla Fevoss
Moda eco-fashion alla Fevoss
Moda ecologica Fevoss

Per produrre una T-shirt servono 2.700 litri d’acqua, pari al fabbisogno di una persona per due anni e mezzo. Basta questo dato a chiarire l’impatto ambientale – pesantissimo – dell’industria della moda, una delle più inquinanti. Un settore tutt’altro che sostenibile, dunque, anche dal punto di vista sociale: nei Paesi in via di sviluppo, dove quasi tutti i principali brand hanno delocalizzato la produzione, l’80 per cento di chi realizza i nostri abiti è donna, pagata meno di tre euro al giorno. Dunque, sfruttata. Ognuno di noi, però, può spezzare questa catena, semplicemente aprendo l’armadio.

«Non occorre stravolgere la propria vita e gettare tutti gli indumenti che abbiamo per comprare vestiti in bambù e cotone biologico», sostiene Arianna De Biasi, fondatrice di Dress ECOde, progetto di informazione e consulenza per una moda più sostenibile, oggi protagonista del workshop «Eco-fashion», organizzato dalla da Fondazione Fevoss Santa Toscana e dal suo Bazar Solidale, che promuove il riuso e il riciclo di abiti usati donati dai cittadini. «Basta iniziare, con un passo dopo l’altro».

Il primo? Informarsi, «scegliendo fonti attendibili e non solo affidandosi a influencer e social network». Si scoprirebbero altri dati disarmanti, come il fatto che l’industria tessile da sola genera il dieci per cento delle emissioni di carbonio globali. Che la tintura dei tessuti rilascia 72 sostanze tossiche nell’acqua, di cui ben 30 vi restano in maniera permanente. Senza contare le fibre sintetiche, che come è ormai noto rilasciano microplastiche ad ogni lavaggio: secondo l’Agenzia europea per l’ambiente, negli oceani finisce mezzo milione di tonnellate di microfibre all’anno, pari a circa 50 miliardi di bottiglie di plastica. «Ecco perché dobbiamo comprare responsabilmente, evitando gli acquisti d’impulso, pensando a cosa ci serve, ci sta bene e ci piace davvero», continua De Biasi, che agli iscritti al corso ha insegnato come creare nuovi capi e accessori con tessuti di recupero e pochi e semplici punti di cucito, rimodernando alcuni capi messi a disposizione dal Bazar Solidale.

«Meglio ancora sarebbe evitare di comprare e votarsi al riuso, allo scambio, al noleggio dei capi, all’acquisto di abiti usati». Come quelli, donati dai cittadini, rimessi in vendita a prezzi accessibili (insieme ad oggettistica e mobilio) dai due punti vendita del Bazar Solidale, in via San Nazaro, 25 e in via Marconi, 21 a Verona. «Oltre a incentivare il riciclo e il riuso dei beni, il Bazar ha come obiettivo l’inclusione sociale», sottolinea Paola Agostini, responsabile del progetto Bazar Solidale di Fondazione Fevoss Santa Toscana. «Collabora infatti attivamente con i Servizi sociali territoriali e l’Aulss 9 su progetti di inserimento professionale, creando opportunità di occupazione per aiutare persone in difficoltà o inoccupate a rientrare nel mondo del lavoro. Promuovere questi eventi - dopo quello sull’alimentazione sostenibile anche quello di oggi sull’eco-fashion - è un modo di accendere i riflettori sul tema della sostenibilità tanto caro alla Fondazione, che della sostenibilità economica, ambientale e sociale ha fatto la sua bandiera».

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