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L'intervista

Giovanni Bonotto: «Fare tessuti dagli scarti è un'arte che va condivisa con le griffe della moda»

«Per 7 anni nessuno ha voluto questi materiali riciclati: poi è stato il boom. I tanti artisti in azienda ci hanno fatto indossare gli occhiali della fantasia»

È dura crescere sereni se da bambino ti costringono a fare colazioni a base di soia e tofu mentre tu, come tutti gli altri bambini vicentini degli anni 70, vorresti pane e marmellata o, meglio, pane e Nutella. Ma se Giovanni Bonotto, che oggi ha 56 anni, è considerato uno degli imprenditori tessili più originali e innovativi nel panorama nazionale, lo deve anche alle "torture" alimentari che gli infliggeva, a fin di bene, la baby sitter dell'epoca, una certa Yoko Ono. Sì, la vedova di John Lennon, che tanti anni dopo, nel 2013, venne a festeggiare l'ottantesimo compleanno proprio nella straordinaria sede della Bonotto spa a Molvena. Dove ha lasciato una sua creazione.

Com'è che ha avuto un'infanzia così... difficile?
(Ride). Colpa di mio padre, Luigi, imprenditore e allievo di Marcel Duchamp, secondo il quale si deve vivere ogni giorno come una grande opera d'arte.

Ed è per questo che l'azienda, fondata nel 1912 da suo nonno Giovanni per produrre cappelli, è diventata uno scrigno di arte e cultura?
È successo, semplicemente, che mio papà ha cominciato a invitare i suoi amici più cari. E per lui casa, famiglia, amici, dipendenti, fornitori, erano tutti allo stesso livello: erano la vita.

Diciamo che non erano amici, come dire, normali. Tutti artisti, a partire da Yoko Ono...
Mio padre è stato, è, un intellettuale. Per lui vita e arte coincidono. E siccome per vivere faceva l'imprenditore, portava a casa, in fabbrica, i suoi amici artisti.

Ne ricordiamo qualcuno? John Cage, americano, uno dei compositori più significativi del 900, Joseph Beuys, tedesco, il padre della scultura sociale...
Il primo si metteva a suonare il gong alle 3 di mattina, il secondo mi faceva le pappe quando ero piccolo. Ce ne sarebbero da raccontare.

Ma cosa c'entrava la fabbrica con questi artisti?
Diventava un tutt'uno. In officina c'era l'operaio, il meccanico, il falegname, che diventavano a loro insaputa gli assistenti di questi artisti. In quegli anni il figurativismo era stato abbandonato e si mescolavano danza, teatro, musica, pittura, scultura: gli artisti producevano e interagivano con la fabbrica. La musica techno, per dire, è nata così.

Come, scusi?
Negli anni 80 registravano i rumori ritmici delle macchine, dei telai, in sequenza: gli inizi della techno sono questi, sono esattamente i rumori delle macchine.

Crescere in questo ambiente è un po' diverso dal crescere in una tipica piccola azienda del Nord Est.
Mio padre assecondava la passione sua, è e resta un intellettuale, è una mente molto attiva. E col tempo mi sono accorto che la presenza di questi artisti (in tutto sono diventati 326, le cui opere sono raccolte dalla Fondazione Bonotto che ha sede all'interno dell'azienda, ndr) ci aveva fatto indossare gli occhiali della fantasia. Grazie ai quali mettevamo a fuoco cose che gli altri non vedevano. E alla fine decenni di presenza continua e contigua di artisti, hanno regalato anche a noi uno spirito artistico.

È da qui che nasce il concetto di Fabbrica Lenta?
Attenzione, la manifattura non è un posto da rose e fiori, è un posto duro e difficile, dove si prova e si riprova. Ecco, in Bonotto i concetti del «non viene fuori», «non si può fare» non esistono. Si riesce sempre a trovare una soluzione e a fare tessuti e superfici che altri non hanno. Facendo convivere vecchi telai degli anni 50, che siamo andati a recuperare perché sono gli unici che danno un certo tipo di trama, con le ultime macchine digitali grazie ai quali riusciamo a far vedere al computer un tessuto in 3D a un cliente di Shanghai. Insomma, Fabbrica Lenta non è il campo di mastro Geppetto, semplicemente è il luogo dove l'uomo torna al centro del fare.

Un luogo che gli artisti continuano a frequentare, vero?
L'ultimo è Gian Maria Tosatti, forse l'artista più importante che abbiamo in Italia in questo momento. Ha rappresentato l'Italia alla Biennale di Venezia: la sua performance è stata la costruzione di una fabbrica.

Ma chi lavora in Bonotto produce di più e meglio visto che è circondato dal bello?
Non abbiamo mai ragionato sotto il profilo della resa industriale o produttiva: le opere sono rimaste nei luoghi dove sono state fatte.

Certo che è incredibile vedere una concentrazione tale di artisti e personaggi famosi passati per la vostra fabbrica. Solo merito di suo padre?
Beh, in gran parte. E poi c'entra anche il caso. Mio padre racconta spesso di quella volta che, insieme all'amico Gino Pellegrini, si trovarono a giocare a calcio con un giovane americano di passaggio nel Vicentino. Era Steven Spielberg, che divenne molto amico di Gino e poco dopo lo invitò a Los Angeles. E Gino era talmente bravo che divenne uno degli scenografi più apprezzati al mondo.

Senta, l'idea di fabbrica che viene dalla sua storia regge davanti ai tempi che cambiano?
La fabbrica resta una comunità di persone. Sia io, che faccio il direttore creativo, che mio fratello Lorenzo, amministratore delegato, abbiamo sempre l'obiettivo di considerarla una comunità con dei valori, sentiamo molto questo dovere. Poi, certo, essere figli di cotanto padre ci ha portato in dono una grande sensibilità artistica, che però non c'entra con la strategia commerciale.

Il vostro è un caso di successione che ha funzionato senza intoppi. Come è stato possibile?
Anche questo è stato merito di papà che è stato così intelligente da cominciare a tirarsi indietro e fare andare avanti me quando aveva 50 anni: «Se credi di aver capito - mi disse un giorno - bene, ora comincia a fare di testa tua». Avevo 24 anni. Mi venne data la possibilità di sbagliare, naturalmente sotto il controllo di mamma Nicla Donazzan, che era direttore finanziario.

Qual è stata la prima idea diversa portata da lei in azienda?
Ricordo che stava nascendo la moda minimalista, che aveva dei grandi portabandiera come il giapponese Yohji Yamamoto e gli americani Donna Karan e Calvin Klein. Mi venne d'istinto l'idea di creare una collezione primavera estate tutta nera, con belle lane, cotoni fini e lini ritorti. Mio padre me la lasciò fare e fu come riscrivere la pagina zero. Io avevo 25 anni.

E come andò?
Fu un boom perché beccai l'inizio del minimalismo, chiusi una pagina di storia della fabbrica, quella dei tessuti decorativi, e iniziò il capitolo dei tessuti che diventano materia e superfici.

Negli ultimi anni la Bonotto è stata all'avanguardia nei tessuti ottenuti da materiali riciclato, compresa la plastica. Com'è nata l'idea?
Mi fa venire in menti tempi difficili. Per 7 anni quei tessuti rivoluzionari non li ha voluti nessuno: temevo di aver buttato tanti soldi e alla fine mi stavo rassegnando a smettere.

Cosa le ha fatto cambiare idea?
Il mercato ha cambiato decisamente direzione durante la pandemia. Oggi è il business più importante della fabbrica deriva dai tessuti sostenibili: si tinge con sempre meno chimica e con coloranti vegetali o minerali. E sono tutti tessuti certificati, con le patenti internazionali. Noi eravamo pronti da tempo e quindi abbiamo messo sul mercato tutta la nostra esperienza.

Quanto investite in ricerca?
Il 10 per cento del fatturato, che è arrivato a 30 milioni.

Senta, com'è cambiato il modo di fare impresa con l'ingresso nel capitale, al 60 per cento, di Ermenegildo Zegna?
Abbiamo trovato una famiglia che è la fotocopia della nostra, con una attenzione all'arte e alla sostenibilità che ci accomuna. E poi abbiamo trovato dei maestri che ci hanno fatto fare il salto di qualità nell'organizzazione. L'industria tessile è antica ma ha bisogno di una disciplina amministrativa incredibile: da family company siamo entrati in un gruppo internazionale che ci ha dato una maturità industriale incredibile. Siamo onorati e felici.

La Bonotto ha rapporti con tutte le più importanti griffe della moda internazionale. Qual è stato il confronto più stimolante?
Ci ha arricchito molto il confronto con Louis Vuitton e in particolare con Virgil Ablovh, lo stilista che ha inventato il gusto dello street portato nella moda. Ci ha aperto delle visioni reciproche. Siamo riusciti a fare dei tessuti incredibili, per esempio intrecciando i fili da pesca e tingendoli. Lui aveva il mood giusto per le commistioni con i tessuti: dai filtri industriali lui ricavava dei kimono. Ma lavoriamo molto bene con tutto il mondo della moda parigina e milanese, da Dior a Balenciaga, da Prada a Gucci, da Fendi ad Armani.

Lei è stato l'unico a cui è stato concesso di ricoprire il teatro alla Scala di Milano di rifiuti... 
(Ride) Messa così suona male. In occasione della Fashion Week del 2019 abbiamo rivestito la Scala con un tessuto ricavato dai rifiuti della plastica su cui abbiamo disegnato un giardino tropicale abitato da un colibrì: così tutti hanno visto che dall'immondizia può nascere un mondo nuovo.

La pandemia prima e ora la guerra in Europa: il mondo si sta chiudendo. Lei che vive di questo mondo come la vede?
Vedo noi europei come un maialino allo spiedo: da un lato abbiamo la Cina che è il cliente più grande della nostra manifattura, e dall'altro lato c'è sempre la Cina che è il fornitore delle materie prime. Siamo circondati dalla Cina e se si chiude il rubinetto, al di là di ogni considerazione, andiamo in difficoltà.

Molte aziende hanno già cominciato a riportare a casa le fasi della produzione che prima facevano all'estero, Cina in testa. Si deve per forza fare così?
La mia preoccupazione è che per attuare un reshoring efficace ci vogliono 20 anni di investimenti industriali. Per carità, ci si può reinventare ma non ci sono più le persone che vogliono lavorare nelle fabbriche. E senza le persone la vedo dura parlare di reshoring. Parlo in questo caso del tessile, il settore che conosco: potrebbe anche essere suggestivo tornare indietro e ripensarlo ma ci mancano le persone.

Non si potrebbe/dovrebbe riconsiderare la questione dell'immigrazione?
Non bisogna più considerare l'immigrazione come una emergenza ma bisogna farsi domande più radicali. Solo se riusciremo ad avere una mentalità veracemente inclusiva ci sarà la possibilità di bypassare il problema. Il custode della nostra fabbrica a Schio, che è grande come la Bonotto a Colceresa e usiamo come tintoria, arrivò in Italia 10 anni fa con i barconi. Pensiamoci.

Confindustria Vicenza le ha affidato la delega per la cultura: che idee ha per il futuro?
Sono stato una settimana al salone del mobile a Milano: è come se il Nilo fosse esondato e avesse dato una vitalità a tutta la città. Ci sono tantissimi eventi, distribuiti in tante parte della città e aperti a tutti. Insomma, Milano è diventato il posto più figo in Europa, con aziende e artisti, non solo legati al mobile.

A Vicenza cosa possiamo fare?
Abbiamo bisogno di qualcosa di simile, che coinvolga tutti e riaccenda la città, dandole vivacità. Sto mettendo giù qualche idea.

Marino Smiderle

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