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I RACCONTI DEL «BUBO». Fulvio Valbusa nato in contrada Colletta a Bosco Chiesanuova. A 36 anni ha conquistato l’oro olimpico nella staffetta 

Valbusa ricorda:
«Che magia il fondo
in Nord Europa»

Fulvio al centro tra Paola Pezzo, alla sua destra, e Marco MelottiFulvio Valbusa mostra con orgoglio la medaglia di bronzo conquistata a Ramsau, in Austria, nel 1999
Fulvio al centro tra Paola Pezzo, alla sua destra, e Marco MelottiFulvio Valbusa mostra con orgoglio la medaglia di bronzo conquistata a Ramsau, in Austria, nel 1999
Fulvio Valbusa

Bubo faceva discesa. Sci lunghi, di legno. Aveva dieci anni quando Marco Melotti, suo grande amico, gli disse «Il tuo è uno sport da fighetti. Io sì, che faccio uno sport serio». Faceva fondo, quel compagnetto di classe. E Fulvio Valbusa, classe 1969 della contrada Colletta di Bosco Chiesanuova, accettò la sfida.

Il campione olimpico veronese sorride davanti a un caffè, trentasette anni dopo, mentre racconta dei suoi esordi. «Marco mi legnava di brutto. All’inizio io ero una schiappa ma dopo un po’ ho iniziato a batterlo. Devo essere sincero: non mi sono mai reso conto della strada che stavo percorrendo. E quel gioco è diventato poi, per qualche anno, la mia vita».

 

Fulvio e il suo gemello Silvio erano i penultimi di sei figli. Andavano a scuola a piedi, i fratelli Valbusa, dalla contrada a Bosco. Due chilometri andata, due di ritorno. Ogni giorno. Suo padre Sabino faceva il guardacaccia, sua madre Rosetta la casalinga. «Passavamo le giornate nei boschi, in estate a costruire case sugli alberi, in inverno a spasso con le slitte e gli sci. Mia madre sapeva quando uscivamo di casa ma non quando saremmo tornati e nemmeno quello che facevamo. E meno male». A sedici anni il suo gemello Silvio viene strappato alla vita da un cancro.

Dopo solo un anno e mezzo muore anche il padre Sabino. «A quel punto mia madre ha preso le redini della famiglia e ci ha guidati nel migliore dei modi. Una roccia, una grande donna. Io ho capito che non esiste il caso, tutto quello che accade rafforza e fa crescere».

 

I fratelli Valbusa (tra cui la più giovane, Sabina, anche lei campionessa olimpica di fondo) trovano tutti un’occupazione. Ma a Fulvio rimane fisso il pallino dello sci. «Dopo le scuole medie ho fatto il macellaio in un salumificio. Mezza giornata. Al pomeriggio mi allenavo e di sera lavoravo come pizzaiolo. Mia madre continuava a dirmi che dovevo trovare un’occupazione vera, seria, a tempo pieno, e non pensare allo sci. Io invece sognavo di entrare in un gruppo militare per avere la tranquillità di dedicarmi solo al fondo. E così è stato».

Valbusa entra nella Forestale a diciannove anni e inizia a collezionare vittorie. «Lo sci era diventato il mio lavoro e l’ho sempre fatto con tanta passione. Ho avuto la fortuna di capire quanto valga nel Nord Europa, il tempio sacro del fondo, dove è lo sport nazionale.

 

Quando in una sola gara ci sono duecentomila persone a fare il tifo come ho visto a Lillehammer, te ne innamori e non puoi più farne a meno». Dalla gara di esordio in Coppa del mondo nel 1992 alle Olimpiadi invernali del 2006, Fulvio ne fa di strada. Umiltà, fatica, sudore, sacrificio, forza di volontà gli ingredienti delle sue numerose vittorie. «Quando mi sono accorto che non riuscivo più a tirar fuori la grinta, ho capito che era il momento di smettere».

Bubo appende gli sci al chiodo dal tetto del mondo, con al collo la medaglia d’oro vinta con Giorgio Di Centa, Pietro Piller Cottrer e Cristian Zorzi nella staffetta alle olimpiadi di Torino 2006. «A 36 anni subentrano altre priorità ed è giusto che sia così. Sono passato dalla vita sportiva alla vita vera, quella di tutti giorni e mi sono reso conto di quanto sia facile fare sport, perché lo fai per te e solo per te. Punto. Nella vita normale, nel lavoro quotidiano, non dipendi solo da te ma anche dagli altri ed esiste anche un’alta percentuale di fortuna. Nello sport no, lo sportivo dipende solo da se stesso».

 

Dal 2008 Fulvio fa la guardia forestale in Lessinia ed è tornato a vivere stabilmente a Bosco Chiesanuova. E quando parla del suo lavoro gli si illuminano gli occhi. «Il mio è il mestiere più bello del mondo. Mi piace definirmi un guardaboschi, è un termine che esprime molto bene lo spirito con il quale lo svolgo. Se ho del tempo libero, lo dedico al mio lavoro. Mi piace trappolare, girare per le montagne veronesi e stupirmi di trovare degli angoli di foresta che non conoscevo. Sono stato in giro per il mondo, ho visitato moltissimi Paesi, dagli Stati Uniti alla Scandinavia ma per me, la mia Lessinia rimane uno dei posti più belli che abbia mai visto».

Serena Marchi

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