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LORENZO GUGOLE

Sono cresciuto
a pane e note
il violino è il
mio compagno

Musicista e virtuoso del violino Lorenzo Gugole, tregnaghese di 39 anni, concertista di livello internazionale, allo strumento ci è arrivato per caso. Colpa della mamma, che in casa doveva sorbirsi le lezioni al pianoforte di Lucio, il primogenito, di Sara e infine di Lorenzo. Non ne poteva più di scale ed esercizi sulla tastiera, con i tre figli che si alternavano allo strumento. Così, una volta entrato in Conservatorio a Verona all’età di 11 anni, grazie anche ai consigli del fratello Lucio, Lorenzo si orientò sul violino.

Una famiglia di musicisti cresciuta a pane e note?

In realtà nessuno dei due genitori suonava. Papà aveva la passione per la batteria e con la mamma cantava nel coro Tre Torri, una scuola eccezionale da cui siamo passati tutti e servita a sviluppare il sentimento della musica d’insieme, una vera esperienza formativa. Come lo è stata quella con la Scuola diocesana Santa Cecilia di Tregnago, frequentata dall’età di sette anni e con la mia prima maestra Marta Turco.

Ma il violino, oltre a soddisfare le orecchie di mamma, è stata anche un’attrazione fatale?

All’inizio non proprio. Lo studio è stato ostico, perché il pianoforte mi dava più soddisfazioni. Mi mettevo alla tastiera e già stupivo, invece sulle corde dovevo cominciare tutto da capo, ma devo dire di aver avuto il sostegno e il conforto dell’intera famiglia e del mio maestro Fabio Bortolotti che mi ha trasmesso la gioia e la passione di suonare con gli altri. Mio fratello Lucio, più grande di otto anni, che si era diplomato in pianoforte e poi organo e clavicembalo, sognava sempre dei concerti insieme, cosa che abbiamo fatto e continuiamo a fare. Lui davvero è un talento naturale, anche se le vicende della vita lo hanno poi portato a fare altro di professione, mentre io vivo di musica, ma ci intendiamo al volo e quando suoniamo basta uno sguardo a far partire un’empatia fortissima. Del resto lui in famiglia suonava, io sgobbavo per arrivare al suo livello.

Qual è stata la formazione?

Prima pianoforte, poi dieci anni di violino al Conservatorio Dall’Abaco e un anno di Erasmus all’università della musica di Leeds in Inghilterra, esperienza molto forte in ambito internazionale e in un ambiente scolastico diverso dal nostro, meno individualista, dove si punta molto sulla musica d’insieme ed è stato fondamentale per la mia formazione di orchestrale per il repertorio della musica contemporanea. Ho avuto la possibilità di suonare da solista con l’orchestra dell’università e ho poi vinto il concorso per l’Orchestra sinfonica di Roma, dove ho suonato per un anno e mezzo e poi mi sono licenziato.

Per molti sarebbe stato il punto di arrivo di un’intera vita professionale. Come mai ha lasciato un posto così?

Una follia, ma anche una delle decisioni più belle della mia vita professionale. Avevo 25 anni. O decidevo allora scelte diverse, o se fossi rimasto ancora qualche anno non me ne sarei più andato. Del resto, lavorare sempre con le stesse persone e con lo stesso repertorio non faceva per me. Avevo conosciuto Simone Bernardini, violinista dei Berliner Philharmoniker, che mi spinse a studiare con il suo maestro, Jean Lenert e così sono passato a Parigi, collaborando nel frattempo con l’Orchestra Rai di Torino dal 2007. Ho iniziato un percorso più specialistico verso la musica antica con Stefano Montanari ed Elisa Citterio, poi con Alan Curtis, viaggiando per concerti in tutta Europa. Per la musica antica ho studiato a Milano e all’Accademia di musica antica di Brunico dalla quale si è sviluppato l’Ensemble Cordia, fondato e diretto da Stefano Veggetti, con il quale collaboro da diciassette anni e con loro ho fatto da primo violino nel 2016 al Magdeburger Telemann Festtage. Negli ultimi anni collaboro molto con l’orchestra I Barocchisti di Lugano, diretti da Diego Fasolis, internazionalmente apprezzati quale complesso di riferimento per l'esecuzione del repertorio antico su strumenti storici e con i quali ho fatto tournée in Cina e Oceania prima del lockdown. Poi c’è il Trio David con Tommaso Benciolini al flauto e Claudio Bonfiglio al pianoforte. Eseguiamo un repertorio del Novecento particolare, ma molto interessante, che mette d’accordo Bach e Bohuslav Martinů, barocco e neobarocco. L’ultima nata, nel 2019, è L’Appassionata, orchestra da camera di Verona di cui sono maestro concertatore, formata da giovani talentuosi di cui mi sono assunto la responsabilità di esser guida nella scoperta del repertorio cameristico.

Spazia dal classico al moderno con una facilità che lascia interdetti.

Durante il lockdown non è stato facile, ma ho la fortuna di fare un’attività variegata che mi ha permesso di esprimermi in diversi progetti e ruoli. Poi quando la stretta sui viaggi è stata assoluta, con mia moglie, Caterina Ruzzante, concertista e insegnante di percussioni, ci siamo sbizzarriti: lei è la componente ritmica della famiglia, io quella melodica. Conciliare violino e percussioni non è il massimo, ma ci abbiamo provato.

Repertorio storico e repertorio moderno chiedono approcci e strumenti diversi?

Uso infatti uno strumento moderno costruito nel 2008 dal liutaio della grande scuola bresciana Filippo Fasser, copia di un violino di Gasparo da Salò che si dice sia l’inventore di questo strumento. Quando invece affronto un repertorio antico ho uno strumento anonimo, di area francese, costruito su una montatura storica, con corde di budello di pecora o montone. Il suono ha un timbro diverso e con molti più armonici, più simili alle corde vocali umane. Ovviamente la tecnica per suonarlo è diversa da quella che si adotta su uno strumento moderno con corde metalliche.

Perché il violino è la sua grande passione di vita?

Perché il violino resta per sempre, ti accompagna per una vita e continua a vivere anche oltre la tua vita, quando non lo suonerai più tu, ma passerà nelle mani di un altro. Non è un tuo compagno di vita, sei tu il suo compagno.

A un bambino che si accinge allo studio dello strumento che cosa consiglierebbe?

La musica è una scuola di vita, regala gioie, ma nulla di più dell’impegno che ci si mette. Quello che si dà è anche quello che ritorna, per cui lo sforzo deve essere sempre massimo. Però non ha eguali la gioia di stare con gli altri, di viaggiare insieme condividendo qualcosa di bello.

Vittorio Zambaldo

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