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Il medico

Scaini: «Io, con
intoccabili nella
strage di Ebola»

Operatori trasportano una vittima dell’Ebola a Monrovia, in LiberiaRoberto Scaini durante la sua missione contro l’Ebola
Operatori trasportano una vittima dell’Ebola a Monrovia, in LiberiaRoberto Scaini durante la sua missione contro l’Ebola
Operatori trasportano una vittima dell’Ebola a Monrovia, in LiberiaRoberto Scaini durante la sua missione contro l’Ebola
Operatori trasportano una vittima dell’Ebola a Monrovia, in LiberiaRoberto Scaini durante la sua missione contro l’Ebola

Uomini e donne come polvere spazzata sotto il tappeto. Era così per l’epidemia della febbre emorragica Ebola. Accade lo stesso per «l’emergenza migranti». «Ne arrivano meno? Certo, li hanno rinchiusi nei lager in Libia. Lo chiamiamo un successo?». Roberto Scaini è un medico, un operatore umanitario per Medecins sans Frontieres. Nel suo sangue scorre sangue veronese: «Quello di mia nonna, peccato non averla conosciuta, se n’è andata quand’ero troppo piccolo. Ma il legame con questa città è rimasto».

Quarantaquattro anni, un lungo curriculum di missioni: tre volte «su Ebola» (così nel gergo operativo di Msf) in Liberia e Sierra Leone, quattro in Yemen e poi Etiopia, Sud Sudan, Siria e Iraq. E la rabbia, la sensazione «che cento morti in alcuni luoghi del mondo non ne valgano uno a due passi da casa tua». Fu così per l’epidemia in Africa occidentale divenuta allarme internazionale solo dopo il primo caso «importato», negli Stati Uniti. «Provate a immaginare se i soccorsi per un terremoto arrivassero non sei ore ma sei mesi dopo», provoca Roberto, protagonista del romanzo-testimonianza «Intoccabili» (edizione: Gli Specchi Marsilio) scritto da Valerio La Martire.

Era, quella per Ebola, una «no touch mission»: ogni contatto tra gli operatori e con i malati poteva essere la porta d’ingresso del virus. Sostanzialmente «nelle prime fasi quasi sempre letale, poi con tutto l’impegno la situazione è migliorata». «Ma l’allarme da parte di Medici senza Frontiere nel 2014 era scattato a marzo», incalza Roberto Scaini, «ma le prime risposte su scala internazionale sono arrivate a settembre. In mezzo ci sono migliaia di morti. Come il soccorso tardivo dopo un sisma...».

Cosa significa per un medico affrontare un evento come l’epidemia di Ebola?

«Umanamente lascia dentro molta amarezza. Ti fa toccare con mano l’egoismo di molti. È come se avessimo accettato che per certe persone, in certi luoghi, esista un destino scritto che, dalla nostra visuale, consideriamo immodificabile».

La grande paura in Occidente è arrivata solo dopo il primo caso. Poteva essere una pandemia?

«Se il virus non fosse stato bloccato nell’Africa occidentale certo, il rischio ci sarebbe stato. Ma migliaia di morti per un ritardo non sono una lezione edificante»

Come nella peste manzoniana, tra quarantena e leggi marziali. L’isolamento, quasi un lazzaretto, come misura estrema...

«È una strategia, forse difficile da comprendere. Soprattutto sul piano umano e sociale, ecco perché è tanto prezioso in questi casi il lavoro in collaborazione con gli antropologi e i logisti. Non è facile fare capire un’emergenza che sconvolge ogni convizione, usanze tradizionali e legami affettivi. Lentamente le persone hanno capito. In Sierra Leone, a un certo punto, nei “check point“ si usavano i termometri, l’approccio sanitario era stato accettato come necessità. Alla fine facevo sessioni di “training“ anche per gli operatori dell’esercito tedesco».

Pazienti intoccabili. Come vive il medico una situazione simile?

«Io indosso di solito i guanti e la mascherina solo in caso di vera necessità. La persona che ho di fronte deve vedermi, sentire la mia empatia come una carica in più. Per Ebola non è stato così: impossibile il contatto, con i malati e tra di noi. Un rovesciamento completo anche sotto il profilo professionale»

Ad Alessia, operatrice descritta in «Intoccabili», viene rifiutato al ritorno ogni contatto, la semplice stretta di mano, anche da parte del migliore amico...

«È accaduto anche a me. Succede che qualcuno non ti venga a trovare, ti consideri un untore»

Quali interrogativi restano dopo l’esperienza, tristemente unica e a tratti «disumana» di Ebola?

«Ora si tratta di comunicare, di dire la verità, raccontare il dramma umano e non solo i numeri. E i dubbi, come il fare un lazzaretto negli anni Duemila, la paura che ho avuto, non per me ma perché a un certo punto ho temuto che le cose finissero fuori controllo...»

Di cosiddette emergenze ormai vive la quotidianità, anche la grande migrazione dall’Africa è descritta come tale. Vista con gli occhi di un operatore medico umanitario come ti appare?

«Ha lo stesso sapore amaro del constatare quanto si sia reagito tardi all’Ebola. Oggi diciamo che gli sbarchi di migranti sono diminuiti, dimenticando di avere limitato i soccorsi da parte delle organizzazioni umanitarie, di averli consegnati nelle mani dei loro carnefici, nei campi di concentramento sulla costa libica. Occhio non vede cuore non duole...»

Gli «intoccabili» di Ebola oggi hanno nuovi volti. Muoiono ancora, non per un virus ma in fondo al mare o massacrati di botte in una baracca. Sono e restano polvere sotto il tappeto.

Paolo Mozzo

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