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SABINA VALBUSA

«Ho girato il mondo sugli sci
ma il cuore è sempre a Bosco»


 Sabina Valbusa con il bronzo vinto nella staffetta olimpica di Torino
Sabina Valbusa con il bronzo vinto nella staffetta olimpica di Torino

 Sabina Valbusa con il bronzo vinto nella staffetta olimpica di Torino
Sabina Valbusa con il bronzo vinto nella staffetta olimpica di Torino

È sempre stata all’ombra di qualche figura che sapeva mettersi più in luce, dal fratello Bubo, alle campionesse dello sci di fondo Belmondo, Di Centa, Paruzzi, eppure Sabina Valbusa non è seconda a nessuno per gentilezza, disponibilità e grinta, la stessa che metteva sulle piste a partire dai dieci anni, quando, abbandonato lo slittino, indossò il primo paio di sci stretti e oggi, che ha contato 48 primavere, non li ha ancora appesi al chiodo, perché continua con lo stesso entusiasmo ad allenare i giovanissimi fondisti dell’As Pavullese, di Pavullo nel Frignano, sull’Appennino modenese, dove lavora come carabiniere forestale.

Ti vedi bambina a provare a dare del filo da torcere agli altri?
Sì tantissimo. Mi arrabbiavo molto quando non riuscivo a far risultato ed era il motivo che mi caricava ancora di più per gli allenamenti e le gare successive. Oggi quando vedo tra i miei atleti facce deluse e lacrime per un podio mancato mi porto come esempio: «Alla vostra età arrivavo sempre cinquantesima», dico loro, «poi ho messo al collo una medaglia olimpica».

Cinque Olimpiadi, otto Campionati del mondo, tre Marathon Cup: una carriera agonistica a livello mondiale lunghissima ti ha lasciato qualche rimpianto?
Quando indosso gli sci, e mi trovo nel posto giusto, capisco perché ho fatto agonismo per 38 anni. A 15 anni ho lasciato la scuola perché sarei dovuta scendere a Verona per le superiori, ma ho deciso di dedicarmi interamente allo sci. Una scelta azzardata ma coraggiosa, sostenuta dalla mia famiglia, che ho voluto ricambiare responsabilizzandomi ancora di più, tant’è che i risultati sono arrivati quasi subito, così da permettermi di entrare nella squadra nazionale. Se dovessi tornare indietro non rifarei la Marathon Cup a fine carriera, perché sono distanze impegnative che ti sfiniscono fisicamente e smetterei prima per dedicare qualche anno allo studio. Però praticando sport ho girato il mondo, mi sono fatto amici e amiche in tanti paesi e capisco la fortuna che ho avuto grazie a una professione che oltre a piacermi mi ha dato anche soddisfazioni.

Qual è stato il ricordo più bello in carriera?
l primo podio individuale in Coppa del mondo in Val di Fiemme nel 1997, seconda nella 15 km a tecnica libera lo stesso giorno in cui mio fratello ottene la sua prima vittoria e non dimentico la mia prima vittoria in Coppa del mondo il 13 marzo 2004 nella 15 km a tecnica libera di Pragelato: era l’ultima gara della stagione, la sera precedente avevo dormito male e avevo poca voglia di gareggiare, ma la pista mi piaceva perché c’erano tante salite e il fiato resse fino alla fine. Partendo con un numero basso mi aspettavo che le migliori, arrivando dopo, mi avrebbero superato, invece non ci riuscì nessuna: vinsi e l’amica e compagna di camera di sempre, Gabriella Paruzzi vinse la sua Coppa del mondo arrivando nona. Un giorno di festeggiamenti incredibili per entrambe.

C’è invece un giorno da dimenticare?
La notte di Nagano del 1998, quando ero tra le quattro staffettiste prescelte per la gara olimpica: con Di Centa, Belmondo e Paruzzi puntavamo al podio, ma un attacco di coliche renali mi bloccò e al mattino il mio posto fu preso da Karin Moroder. Il quartetto italiano si aggiudicò il bronzo dietro Russia e Norvegia e per me fu una medaglia mancata. Ma un momento difficile fu anche il 1995, ferma un anno per l’operazione alla spalla. Però servì a farmi capire quello che avrei dovuto fare, ed è vero che sono le situazioni più dure che ti danno la spinta a migliorare: arrivarono le medaglie mondiali, l’argento di Ramsau (1999) e i bronzi di Lahti (2001) e Oberstdorf (2005) e il bronzo olimpico di Torino (2006), tutte in staffetta: mi è mancata la medaglia individuale, ma penso che una medaglia presa in gruppo abbia qualcosa in più, perché è una gioia condivisa.

Entrata fra le prime donne in un gruppo sportivo militare, quello del Corpo Forestale dello Stato, oggi sei carabiniere forestale in Appennino. Come ti trovi?
Benissimo. Lavoro a Pavullo e abito a Sestola, con il mio compagno Fabio, anche lui carabiniere forestale che però non arriva dal mondo sportivo. L’ho convinto io a inforcare la bici per tenersi in forma e adesso quasi me ne pento, tanto è l’entusiasmo che ci mette. Certo sarei potuta rimanere nell'orbita della nazionale di fondo, o allenare in qualche centro sportivo, ma per carattere amo le sfide e rimettermi in gioco. Il mio lavoro mi piace e devo dire grazie a tanti colleghi meravigliosi che ho trovato. Per me, che arrivavo dallo sport, non era facile inserirsi fra carte e verbali, ma hanno avuto tutti tanta pazienza di insegnarmi. Seguo le tematiche ambientali, le autorizzazioni per i tagli boschivi, indagini per inquinamento, il controllo della caccia.

E i lupi?
Ce ne sono, ma rispetto alla Lessinia qui c’è il vantaggio che non esiste praticamente il pascolo degli animali domestici, per cui i lupi predano esclusivamente selvaggina, che fortunatamente c’è in abbondanza. Devo dire però che mi manca il paesaggio della Lessinia, il suono delle ciocche e le vacche al pascolo.

Ma anche l’Appennino ha il suo fascino...
Indubbiamente. Pur non raggiungendo quote elevate, ha contesti molto selvaggi. Io sono romantica e quando giro per lavoro mi piace fermarmi a guardare i colori del paesaggio, ascoltarne i suoni, respirarne i profumi. A volte ho l’impressione di essere noiosa per i colleghi che sono in auto con me quando chiedo loro di fermarsi ad ammirare.

Torni mai a Bosco Chiesanuova?
Vengo per salutare i miei familiari e fare qualche gran fondo di ciclismo, ma è sempre più difficile, perché mi prende una grande malinconia e fatico a staccarmene. Il mio cuore e le mie radici sono rimaste là, pur trovandomi bene qui ed entusiasta del lavoro e delle amicizie che mi sono costruita in Appennino. Nelle più limpide giornate d’inverno dalla Lessinia vedevo il Cimone guardando oltre la pianura. Adesso ci vivo attorno. Se mi chiedono di dove sono, rispondo sempre: «Sono di Bosco Chiesanuova, ma vivo a Sestola».

VIttorio Zambaldo

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