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L'ultima intervista

Enzo Erminero: «Mi scelse Aldo Moro. La Dc liquidata con un fax: che errore»

di Stefano Lorenzetto
«Diressi la Camilluccia. Oggi la politica non si studia più»
A sinistra Enzo Erminero oggi, 92 anni. A destra con Aldo Moro all'inaugurazione della sede della Dc di via Garibaldi
A sinistra Enzo Erminero oggi, 92 anni. A destra con Aldo Moro all'inaugurazione della sede della Dc di via Garibaldi
A sinistra Enzo Erminero oggi, 92 anni. A destra con Aldo Moro all'inaugurazione della sede della Dc di via Garibaldi
A sinistra Enzo Erminero oggi, 92 anni. A destra con Aldo Moro all'inaugurazione della sede della Dc di via Garibaldi

In occasione della scomparsa di Enzo Erminero, ripubblichiamo l'ultima intervista rilasciata a L'Arena, lo scorso 27 agosto.

 

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Solo Mario Pasti, nato a San Giovanni Lupatoto nel 1884, eletto deputato nel 1929, morto nel 1975, rimase in carica per un periodo più breve: meno di tre mesi, dal febbraio al giugno 1930. Ma Pasti era stato nominato podestà di Verona dal fascismo, mentre Enzo Erminero era sindaco. L’undicesimo dalla Liberazione. L’ultimo della Democrazia cristiana. E quello che è durato meno a Palazzo Barbieri: dal 24 aprile al 30 novembre 1993. Appena 220 giorni, poco più di 7 mesi.

Se Pasti fu definito dallo scultore Ugo Zannoni, l’autore della statua di Dante Alighieri in piazza dei Signori, «un agrario, ma nel senso più intelligente e onesto della parola», Erminero, 92 anni compiuti lo scorso 8 giugno, è stato un commerciante, ma nel senso più nobile e ampio della parola. Nato in via Emilei, inizialmente affiancò il padre Giuseppe, venditore di carta e cancelleria con negozio in via Quattro Spade e deposito in via Sant’Antonio.

Ma già nel 1945, appena quattordicenne, militava nella Dc. A 18 anni s’iscrisse al partito nella sezione di Verona centro. La precoce vocazione per la cosa pubblica maturò con la laurea in scienze politiche. A 37 anni fu eletto alla Camera, dove rimase per quattro legislature, fino al 1983. A 45 era sottosegretario all’Industria, al Commercio e all’Artigianato nel governo di Giulio Andreotti. A 47 sottosegretario alle Finanze ancora con Andreotti. A 48 sottosegretario al Tesoro sempre con Andreotti e poi nel governo di Francesco Cossiga.

L’agosto di Erminero è un mese triste, da trascorrere trincerato nella sua casa di via Colonnello Galliano, assistito dal bombolone dell’ossigeno («da tre anni soffro d’insufficienza respiratoria, me alzo la matina e me manca el fià»), aria condizionata a manetta, 58 gradini a separarlo dalla città: «Sul retro del palazzo mi avrebbero messo l’ascensore, ma dove vuole che vada? Al mare c’è troppo sole, in montagna ansimo. L’unico svago è fare la spesa con la colf da Esselunga, Mion o Famila».

Il giorno 8 ricorreva il primo anniversario della morte della moglie Maria Giovanna Reni, laureata al Politecnico di Milano, uno dei quattro architetti che progettarono il Quadrante Europa. «Non ho potuto avere accanto la nostra unica figlia, Elisa, che da tre lustri abita a San Mateo, all’imbocco della Silicon Valley».

Che fa Elisa in California?
Una ventina d’anni fa, prima della laurea in lingue all’Università di Bologna, uno dei suoi professori la mandò a perfezionarsi a Houston. Rimase negli Stati Uniti. Traduce i testi per le produzioni multimediali delle compagnie di information technology, anche per Apple, credo. Ha sposato Michael Szypula, un informatico italo-polacco. Mi hanno dato tre nipotini, Fiona, 9 anni, Keira e Lian, gemelli, 7. L’ultima volta che sono venuti a Verona è stata nel novembre scorso. Siamo sempre in contatto con le videochiamate.

Come divenne un politico di professione?
Lo devo a Giovanni Bazoli, Pietro Padula, Franco Salvi e altri amici della Fuci, la Federazione universitari cattolici. Mi segnalarono ad Aldo Moro.

Vedo alle sue spalle una scultura che raffigura Moro.
È in legno, ispirata alla caricatura che ne faceva Giorgio Forattini. La acquistai nel 1976 a Roma, il giorno in cui compì 60 anni. A lui invece regalammo i gemelli per i polsini della camicia. Fu Moro nel 1959 a volermi come direttore della Camilluccia.

La scuola di partito della Dc.
Ci rimasi per due anni e mezzo. Tenevamo corsi di formazione a gruppi di 30-40 persone per volta. Era così che i democristiani imparavano come operare nei Comuni, nelle Province, nelle Regioni, in Parlamento. Oggi non si prepara nessuno. Ha chiuso anche la scuola delle Frattocchie dei comunisti. La politica non è più materia di studio.

Come seppe che Moro era stato rapito?
Il 13 marzo 1978, tre giorni prima, avevo giurato davanti al presidente Giovanni Leone come sottosegretario nel governo Andreotti IV. Quella mattina si stava votando la fiducia. Ci guardammo smarriti: Moro sequestrato dalle Br, la sua scorta trucidata. Qualcosa d’impensabile.

Che uomo era Moro?
Una mente eccelsa. Fra gli statisti, l’unico a fargli ombra sarebbe stato Cavour. Certo, non era portato per la sintesi. Al congresso della Dc tenutosi a Napoli nel gennaio del 1962, che portò alla nascita del quarto governo Fanfani, Moro giustificò la scelta di aprire al centrosinistra parlando per sei ore, tanto che l’intervento dovette essere spezzato in due parti: tre ore al mattino e tre al pomeriggio.

Lei c’era al suo funerale?
Quello di Stato, senza la salma per volontà della famiglia? Certo. E poi andai a pregare sulla sua tomba nel cimitero di Torrita Tiberina. Sul cancello d’ingresso c’è un’iscrizione latina: «Nemini parco», non risparmio nessuno.

Chi la avvicinò alla politica?
Mio padre era amico del sindaco Giovanni Uberti. Si erano conosciuti nel Partito popolare di don Luigi Sturzo. Uomo coerente, Uberti, ma testardo. S’impantanò nella polemica sui genitali dei cavalli scolpiti da Mario Salazzari e Angelo Bianchini nelle statue bronzee al ponte della Vittoria, giudicati osceni. La leggenda metropolitana dei mutandoni di lana con cui avrebbe preteso di coprirli fece ridere tutta l’Italia. Pare che a sobillarlo fosse stato don Carlo Signorato, parroco dei Santi Apostoli.

Fu istituita una commissione per dirimere la contesa.
E lì prevalse per fortuna la linea di monsignor Giovanni Ongaro, insigne biblista, che giudicò irrilevante la questione morale. Se togliessimo i coglioni a tutti i cavalli d’Italia, addio monumenti equestri.

Chi la candidò alla Camera?
Nessuno. Decideva una commissione. Tu potevi usare solo tre verbi: gradirei, voglio, desidero.

Quale adoperò?
«Desidero». Ma era come se dicessi «voglio».

Fu deputato quattro volte.
Anni d’intensa produzione legislativa. Varammo lo statuto dei lavoratori, il nuovo diritto di famiglia, il Servizio sanitario nazionale, il divorzio.

L’aborto.
Sa che non mi ricordo l’anno? Legge 194 del 1978. A dire il vero non rammento neppure che cosa scelsi al referendum abrogativo della legge sul divorzio.

Faccia uno sforzo.
Credo che votai come aveva suggerito la Dc: sì all’abrogazione. Mia moglie votò no. Ma non litigammo per questo.

Come diventò sindaco?
Eravamo in piena Tangentopoli. Metà dei consiglieri comunali s’era dimessa per motivi giudiziari. Io e il socialista Alberto Fenzi, presidente della Provincia, in pratica restammo gli unici a piede libero.

Rimase in carica per poco.
Beh, parliamoci chiaro: mezza Dc non mi voleva.

Da chi fu scelto?
Da Renato Gozzi, segretario democristiano. Dapprima mi chiese di dare una mano al sindaco Aldo Sala nella Giunta. Ma poi mi disse: «Devi farlo tu». Telefonai a mia moglie per consigliarmi. Fu lapidaria: «Se te lo chiede Gozzi, non puoi dire di no».

Lei era al corrente delle ruberie dei politici?
Era noto che il sistema corruttivo fosse molto diffuso. Ma non avevo elementi di prova concreti. Per fortuna.

Ebbe un colloquio con il procuratore Guido Papalia, mi pare.
Sì. Gli annunciai che avrei accettato di fare il sindaco solo se non vi fossero state in corso indagini a me ignote.

E lui?
Mi rispose: «Male non fare, paura non avere».

Vogliamo parlare dei sindaci che l’hanno preceduta o degli amici di partito? Cominciamo da Giorgio Zanotto.
Eh, caspita! Istituzionalista nato. S’immedesimava nell’incarico sino a trasfigurarsi. Diventava sindaco? Quello era il primato. Diventava presidente della Provincia? Quello era il primato. Diventava presidente della Banca popolare? Quello era il primato. Egli stesso diventava l’istituzione.

Renato Gozzi.
Personalità complessa. Umanamente più ricco di Zanotto. Era portato alla confidenza con i poveri e all’ascolto. Lo amavi per questo.

Carlo Delaini.
Intelligente, vivace. Me lo ricordo giovane sindaco di Bardolino. Fece mettere una scritta in municipio: «Se non c’è casino, inventatelo per dimostrare che sapete risolverlo».

Vittorino Colombo.
Un dirigente efficientissimo. D’altronde era il capo del personale della più grande azienda di Verona, le Officine grafiche Mondadori. Acuto e severo nei giudizi. Scriveva molto bene.

Valentino Perdonà.
Mio vicepresidente nell’Azione cattolica e mio professore di lettere al liceo Messedaglia. Uomo di grande tempra.

Conosce Sergio Mattarella.
Ero amico del fratello Piersanti, che sarebbe stato l’erede naturale di Moro se nel 1980 la mafia non lo avesse assassinato. Scesi a Palermo per rincuorare i morotei dopo l’omicidio. Ricordo quando l’attuale presidente della Repubblica venne a Verona, da ministro della Difesa, e affrontammo la questione del passaggio al Comune della caserma Passalacqua.

Fu al governo con Cossiga.
Lo conoscevo dagli anni Sessanta, quand’era sottosegretario alla Difesa nel governo Moro. Io ero segretario provinciale della Dc. Veniva a Verona a trovare la cugina Rosanna Fiori, moglie dell’imprenditore Stefano Wallner, poi uccisa nel 2001 a fucilate in Sardegna dai banditi che avevano messo gli occhi sulla sua azienda florovivaistica.

Conosce l’attuale sindaco Damiano Tommasi?
L’ho incontrato due volte a pranzo. Non mi ha chiesto consigli, né io gliene ho dati. Abbiamo convenuto sul fatto che a Verona scarseggiano le istituzioni che preparino i giovani al lavoro qualificato.

Rimpiange la Dc?
Solo quella fino al 1980, quando finì il suo corso creativo.

Nel 1994 l’avrebbe sciolta, come fece Mino Martinazzoli?
Mai, e men che meno con un fax. Fu un errore. Alle elezioni del 1992 eravamo pur sempre il primo partito, con il 30 per cento dei voti.

Che cos’è stata per lei la politica?
Qualcosa di totalizzante.

La segue ancora?
Per quel poco che si riesce a interpretarla. Oggi la politica è solo chiacchiere in tv, una degenerazione avviata da Silvio Berlusconi con le sue reti commerciali.

Qualcuno viene a farle visita?
Sì, amici ex dc, come Wilmo Ferrari, Francesco Benedetti, Pietro Clementi. Anche Gabriele Filippi, ex cancelliere in Procura.

Che cosa ci fa su Facebook?
Boh! Sarà stata mia figlia.

Dall’account risulta che lei segue il Pd di Verona e Matteo Mischi, «senior product specialist oncology presso Msd Italia». Questo Mischi non lo conosco. So poco anche del Pd di Verona. Chi lo trova? Bisogna cercarlo.

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