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LA TESTIMONIANZA

Medici per la pace
«I Rohingya
in un inferno»

Il presidente e un’operatrice della onlus reduci da una missione in Bangladesh
Una volontaria di Medici per la pace tra i profughi Rohingya
Una volontaria di Medici per la pace tra i profughi Rohingya
Medici per la pace tra i rohingya

Un inferno. «Sì, quello che abbiamo visto e ci hanno raccontato è davvero l’inferno». Non usano mezze misure Fabrizio Abrescia e Marta Benini per descrivere quello che hanno toccato con mano in Bangladesh. Un Paese distrutto dalle alluvioni che hanno provocato, nel computo delle vittime anche India e Nepal, 1.200 morti e qualcosa come 40 milioni di sfollati, ma soprattutto, un Paese testimone di un genocidio, quello perpetrato dalla vicina Birmania nei confronti della minoranza musulmana dei Rohingya. Il dottor Abrescia, medico chirurgo, è il presidente della onlus veronese Medici per la Pace, Benini si occupa della realizzazione dei progetti. Due professionisti di quel grande mondo della solidarietà internazionale che di fronte a quello che sta accadendo in quel territorio del Sud-est asiatico non hanno esitato a parlare di genocidio e pulizia etnica.

 

«Quello che abbiamo potuto vedere», raccontano i due veronesi partiti l’11 dicembre alla volta del Bangladesh e rientrati alla vigilia di Natale, «ci induce a definire quello che sta accadendo un crimine contro l’umanità. In pochi mesi le autorità militari bengalesi hanno allestito quattro campi profughi, ma sono già al collasso, gli arrivi sono quotidiani, ci sono almeno un centinaio di persone al giorno che attraversano il confine con la Birmania. Quello che ci ha sconvolto sono soprattutto le testimonianze. Abbiamo voluto realizzare una quindicina di interviste, per avere del materiale, per confrontarlo, per renderci davvero conto senza pregiudizi e preconcetti. Tutte le testimonianze da noi raccolte sono chiare. Si parla di uccisioni, di stupri, di una vera e propria pulizia etnica mirata a distruggere il popolo dei Rohingya. Le donne che abbiamo sentito sono state tutte violentate, hanno o un figlio o il marito che è stato ucciso dalle forze militari birmane, aiutate in questo massacro da delle autentiche bande della morte paramilitari». A dividere il confine tra Bangladesh e Birmania in quella zona c’è il fiume Naf, continuano i due professionisti, «e sta accadendo come nel Mediterraneo. I Rohingya lasciano tutto quello che hanno e sono in balia dei trafficanti che su barche fatiscenti li derubano del poco che hanno per portarli sulla sponda bengalese. Un’ecatombe». Sono 500 mila, secondo stime Onu, i profughi che in pochi mesi hanno cercato riparo in Bangladesh. In Birmania, governata dall’ex premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi, è stata nominata una commissione parlamentare che ha escluso violenze nei confronti della minoranza musulmana dei Rohingya.

 

«Lei è ostaggio dei militari», taglia corto Abrescia. «In Myanmar ci sono diverse minoranze etniche e riconoscere i Rohingya sarebbe drammatico per la stabilità del Paese. La Birmania è essenzialmente buddista, ma qui la religione, come spesso accade, è solo un pretesto». Medici per la Pace lancia l’allarme non solo per i Rohingya, ma per tutto il Bangladesh, che conta quasi 169 milioni di abitanti, densità più alta nel mondo, con un reddito pro capite di 1.508 dollari l’anno, l’Italia, per fare un raffronto ha un reddito pro capite di 35.708 dollari, secondo il Fondo Monetario internazionale. «Luogo della nostra missione è stata l’area di Keshabpur nel distretto di Jessore, colpito dall’alluvione che ha devastato il Bangladesh. Destinatari dell’intervento sanitario d’emergenza sono stati dieci villaggi rurali periferici della regione bengalese, in molti casi isolati dal fango e dai detriti.

 

Grazie ad un ambulatorio mobile è stato possibile raggiungere le aree individuate come maggiormente colpite, avviando 25 campi medici con il supporto dell’associazione Dalit, partner locale di Medici per la Pace. La clinica mobile, composta da medici, infermieri e operatori sociali, ha offerto in media 200 visite al giorno, fornendo assistenza sanitaria di base per le più comuni patologie quali diarrea, malattie gastrointestinali causate dall’acqua inquinata, infezioni cutanee, forme polmonari e parassitosi. Le condizioni igienico-sanitarie sono disastrose: falde acquifere inquinate dall’arsenico e la stessa acqua viene utilizzata dall’igiene personale all’uso alimentare. Siamo intervenuti con visite mediche e farmaci per le patologie più comuni mentre i casi più gravi sono stati riferiti all’ospedale di Chuknagar, a 30 chilometri dalla città di Khulna».

 

L’intervento d’emergenza, reso possibile grazie al contributo di Fondazione Cariverona, è stato richiesto dalle autorità locali e ha permesso di dare una risposta efficace alla totale assenza di servizi sanitari di base nelle aree rurali alluvionate, dove si trovano molte donne e bambini, contro cui si indirizzano le violenze dei militari birmani. «Almeno il 70 per cento dei profughi Rohingya sono donne e bambini piccolissimi», spiega Benini. «Noi, grazie ai buoni uffici del nostro partner locale, abbiamo raggiunto i campi a Cox's Bazar, terra di confine con la Birmania dove cercano rifugio i Rohingya. Lì abbiamo visto l’inferno e una situazione peggiore di quella delle regioni alluvionate in Bangladesh. Non c’erano solo miseria e disperazione, ma anche paura. La stessa che abbiamo provato noi, gli unici due occidentali nel raggio di centinaia e centinaia di chilometri». 

Sandro Benedetti

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