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Il regista al Festival della Bellezza

Pupi Avati, la vita come un film. «Felicità è credere in ciò che fai»

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Pupi Avati al Festival della Bellezza (Brenzoni)
Pupi Avati al Festival della Bellezza (Brenzoni)
Pupi Avati al Festival della Bellezza (Brusati)

La voce di un uomo che ha tanto vissuto, amato, sognato. E che descrive ogni aneddoto della vita come dovesse sceneggiare uno dei suoi film. Perché ogni suo film nasce da un episodio, da un incontro o un amore vissuto per davvero. Ascoltare Pupi Avati, ospite del Festival della Bellezza al Teatro Romano, è come assistere alla lezione di un maestro spirituale, un guru con una notevole dose di ironia. E una sincerità a tratti imbarazzante, a svelare intimità e pensieri segreti («Ero invidioso della bravura di Lucio Dalla; avrei voluto che sparisse. E poi siamo anche diventati amici…»). Interrogato dalla giornalista Emilia Costantini, il regista bolognese classe ’38, si è raccontato, dagli esordi al film più recente, in preparazione in questi giorni a Ferrara.

 

RITRATTO DI FAMIGLIA SGARBI. «Il film a cui sto lavorando è “Lei mi parla ancora”, ispirato al romanzo scritto da “Nino” Sgarbi in ricordo della moglie Rina», ha spiegato Avati. «Sono i genitori di Vittorio ed Elisabetta Sgarbi. Lei è scomparsa qualche anno prima del marito. Nella cultura contadina si immagina che siano gli uomini i primi ad andarsene, in una coppia. Le donne sono più preparate a un momento del genere. Ma nel caso dei genitori Sgarbi, è scomparsa prima lei. Così il padre è rimasto solo ed Elisabetta, la figlia, gli ha suggerito di scrivere un libro di ricordi. E gli ha trovato pure un ghostwriter che scrivesse per lui. È nato così il romanzo “Lei mi parla ancora”. Io però ho voluto basare il mio film non sul libro ma sul rapporto tra “Nino” e il ghostwriter, tra un marito che ha perso la moglie dopo tanti anni di matrimonio e un giovane uomo già separato, con figli e altre compagne; due persone, cioè, dalla vita diversa. È il mio film più sentimentale e romantico. E dunque coraggioso. Nella parte di “Nino” c’è Renato Pozzetto. Non sapevo se avrebbe accettato il ruolo, poi l’ho incontrato e mi ha parlato di sua moglie, scomparsa qualche anno fa. Sono stati insieme per decenni e la ricordava commosso. Lì ho capito che era perfetto per la parte, e l’ha capito anche lui».

 

LA VITA, UNA COLLINA. «Vedo la vita come una collina», confessa il regista. «Nei primi due quarti dell’esistenza pensi ci sia in cima un risarcimento per tutte le tue fatiche. Poi scollini – me ne sono accorto quando ho iniziato a vederci meno - e t’accorgi che non è così. Il risarcimento non c’è. Ed è per questo che tante persone si reputano infelici. Muoiono senza sapere chi sono, legate a un lavoro che non le ha mai coinvolte né appassionate. Quando scollini, poi, inizi ad avere nostalgia del passato: non hai più illusioni e ripensi a quand’eri ragazzo – e su questo c’ho fatto vari film. Infine, nell’ultimo quarto della vita, dove sono ora, riaffiora la nostalgia dell’infanzia. Ripenso a quel “per sempre” che provavo da bambino: tutti i bambini, infatti, pensano che le cose durino per sempre. E io non mi rassegno a pensare che tutto finisca. Ma perché assomiglio al bambino che ero? Perché sono vulnerabile, il punto di arrivo massimo dell’essere umano. Gli uomini migliori sono sensibili, forti perché sono vulnerabili e comprendono il dolore degli altri. E qual è la fine più bella che auspico per me? Arrivare a casa ed essere atteso in cucina da mio padre e mia madre».

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Giulio Brusati

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