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L'intervista della domenica

Aldo Serena: «Il rigore sbagliato contro l’Argentina di Maradona? Il trauma calcistico che mi ha segnato per sempre»

L'ex goleador di Juventus, Inter e Milan si racconta nel libro «I miei colpi di testa» partendo dall'aneddoto sui Mondiali del '90
Aldo Serena a Vicenza alla presentazione del suo libro “I miei colpi di testa” (COLORFOTO / ILARIA TONIOLO)
Aldo Serena a Vicenza alla presentazione del suo libro “I miei colpi di testa” (COLORFOTO / ILARIA TONIOLO)
Aldo Serena a Vicenza alla presentazione del suo libro “I miei colpi di testa” (COLORFOTO / ILARIA TONIOLO)
Aldo Serena a Vicenza alla presentazione del suo libro “I miei colpi di testa” (COLORFOTO / ILARIA TONIOLO)

Non c’è tifoso di calcio che non lo ricordi tanto per un gol segnato quanto per un gol subito. Avendo indossato le maglie di Inter (casa madre), Milan e Juventus e avendo segnato tanto “per” quanto “contro” ciascuna di queste corazzate nei vari big match che si sono succeduti nel corso dei 12 campionati giocati ai piani nobili della serie A (più due stagioni in B con Como e Bari e un’altra in A col Torino), Aldo Serena, 62 anni, pedemontano veneto di Montebelluna, ha fatto gioire e piangere in egual misura le curve biancorossonerazzurre.

Perché allora ha scelto di iniziare il libro della sua vita, “I miei colpi di testa”, scritto con Franco Vanni per Baldini+Castoldi, col rigore sbagliato in Nazionale contro l’Argentina di Maradona ai Mondiali del ’90?
Perché è stato il trauma calcistico che mi ha segnato per sempre. Ricordo il momento prima di calciare, i pensieri fatti su Goicoechea, il portiere dell’Argentina ritenuto un para-rigori, l’ansia. E poi il tiro, poco deciso, intercettato dal n. 1 sudamericano e io che in una frazione di secondo m’illudo che la palla caramboli ed entri in rete. Un’illusione, appunto. Dopo non ricordo più nulla. Ho conosciuto una parte di me che mai avrei sospettato potesse esistere e che fortunatamente non ho più incontrato.

Riavvolgiamo il nastro di un bel po’, torniamo in prima elementare. Quando si accorse che il suo vero nome era Aldo. Mica male scoprire il proprio nome a 6 anni. Com’è potuto accadere?
Io per tutti in famiglia ero Tonino. Nei registri della parrocchia mi avevano registrato come Antonio. I miei genitori avevano detto a mia nonna di andare in Comune e lì è successo il patatrac: mio nonno era morto da un anno e lei, che era un... sacramento, decise di darmi il suo nome, Aldo, appunto. Io me ne accorsi quando la maestra fece l’appello in prima elementare.

I primi calci al pallone come furono? Ariete d’area fin dall’inizio?
Macché, io da bimbo ero piccolino. Nelle giovanili del Montebelluna mi facevano giocare col 10 ma ero un centrocampista da battaglia. Facevo diversi gol e forse per questo, a 17 anni, Gianni Rossi decise di spostarmi in attacco.

E fece sfracelli...
Era un periodo che il Montebelluna non segnava e nella trasferta di Venezia, memorabile, l’allenatore mi schierò centravanti. Abbiamo vinto 3-0 e io ho fatto due gol. Non ho più cambiato ruolo.

E pure l’Inter lo notò. Come fecero gli osservatori nerazzurri ad accorgersi di lei?
Per la verità ad accorgersi di me furono quelli del Como, che all’epoca giocava in serie B. Solo che il Montebelluna chiedeva tanti soldi e allora i lariani ebbero l’intuizione di chiedere aiuto a Giancarlo Beltrami, direttore sportivo dell’Inter con un passato in riva al lago. Gli proposero di acquistarmi in comproprietà.

Per quanti soldi?
Eh, una bella cifra: 150 milioni di lire. Mi dissero che sarei partito dal Como ma siccome la squadra retrocesse in serie C passai all’Inter. Per me, tifoso nerazzurro, era come toccare il cielo con un dito.

Da Montebelluna alla tentacolare Milano: correva la stagione 1978-79 e lei aveva 18 anni. Non la spaventava lasciare il paesello per andare da solo nella metropoli?
Per niente. Il mio sogno era andare via e ci sarei andato comunque. Fin da quando avevo 7 anni mio padre mi faceva allacciare scarponi in fabbrica il pomeriggio e studiare la sera. Prendere quel treno, per me, equivaleva ad andare in paradiso. Avevo gli occhi dell’incanto. E in quel treno feci il primo incontro importante.

Chi incontrò?
Mi accorsi che nello scompartimento viaggiava Adriano Fedele, terzino titolare dell’Inter. Lo avvicinai con un po’ di timore e mi presentai. Mi prese subito a benvolere e nei mesi successivi più di qualche volta mi offrì delle cene in grado di compensare alla dieta spartana cui eravamo sottoposti.

Colpa del sergente di ferro, Eugenio Bersellini, allenatore inflessibile dell’Inter?
Più che altro colpa del contratto. Prendevo 100 mila lire al mese più vitto e alloggio ma ventimila se ne andavano per l’abbonamento ai mezzi pubblici di Milano. L’Inter aveva poi fatto una convenzione con la trattoria per 2.500 lire a pasto ma l’oste siciliano disse che a quel prezzo non poteva darci primo, secondo e dolce: bisognava scegliere. In pratica, si tirava la cinghia.

L’esordio in serie A arrivò piuttosto presto. Come fece a convincere Bersellini che in quella stagione aveva in squadra la coppia d’attacco Altobelli-Muraro?
Prima dell’esordio ricordo che nella prima amichevole estiva, Inter A contro Inter B, feci un gol. Questo mi valse uno spezzone di partita a San Siro in Coppa delle Coppe contro il Floriana Malta. Stavamo vincendo 4-0 e il mister mi disse: «Vai dentro tu». Non beccai palla, San Siro mi paralizzò.

E nonostante questo Bersellini la schiera titolare qualche settimana dopo in campionato contro la Lazio...
Per forza, Muraro era infortunato e Altobelli era stato squalificato dopo la gomitata a Maldera nel derby. Gli restavo solo io.

E andò bene.
Prima ricordo l’allenamento particolare che mi fece Armando Onesti, il vice di Bersellini, ad Appiano Gentile. Era un mercoledì, io e lui da soli, con alla fine una pasta in bianco nell’oscurità.

La domenica dopo, però, San Siro si accese. Ci racconta come andò?
Fu un sogno. Mi marcava Manfredonia, che riuscii ad anticipare su un cross preciso proprio di Fedele. Vidi la palla in rete e non capii più niente.

Lei è passato alla storia come il girovago del gol e come quello che ha giocato e segnato nei derby di Milano e Torino con tutte e quattro le maglie. Alla fine quanti scudetti ha vinto?
Quattro. Uno con la Juve, uno con l’Inter e due col Milan, anche se l’ultimo non sono stato protagonista. È vero che ho cambiato spesso squadra, ma ho sempre dato tutto in ogni circostanza.

Passare da una parte all’altra della barricata nella stessa città non deve essere stato semplicissimo. Come la prendevano i tifosi?
L’odio vero l’ho percepito a Torino. Quando i tifosi granata seppero del mio trasferimento in bianconero si scatenò una campagna pazzesca contro di me. Io vivevo nello stesso palazzo dove abitavano Comi, Sclosa, Beruatto, ex compagni del Torino. Fui costretti a non frequentarli più. A Milano non ci fu tutta questa acredine.

Il compagno d’attacco con cui si è trovato meglio?
Devo dire Ramon Diaz, nell’Inter dei record. Ma anche con Schachner al Toro e con Laudrup alla Juve mi trovavo a occhi chiusi. È andata meno bene con Altobelli e con Klinsmann, che occupavano i miei spazi. Se mi spostavano dal centro dell’area rendevo la metà.

Senta, lei da anni fa anche il commentatore tecnico durante le telecronache. Com’è cambiato il calcio rispetto ai suoi tempi?
Il calcio adesso è molto più veloce e i giocatori sono più tutelati. Una volta c’erano giocatori che si mettevano la sifcamina nei gomiti e poi te la... spalmavano sugli occhi. Altri affilavano i tacchetti per fare più male. E anche Van Basten...

Come Van Basten? Picchiatore anche lui?
No, ma fece una furbata nel derby che non ho più dimenticato. Lo stavo marcando durante un corner, lui fece finta di allacciarsi le scarpette e invece raccolse la sabbia dal campo e me la gettò negli occhi.

Il difensore più ostico che ha incontrato?
Non ho dubbi, Pietro Vierchowod. Fuori dall’area con lui non la beccavo mai. Ma dentro area, con destrezza, sono riuscito a fare qualche gol anche a lui. 

Nel libro racconta della festa scudetto dell’Inter dei record...
Non ho scritto tutto, perché alcuni dettagli un gentiluomo li omette. Però ricordo che la festa ufficiale finì a mezzanotte. Ma come, dissi, quando vinsi con la Juve durò tutta la notte. Così ci arrangiammo io e Nicola Berti. Prendemmo la mia Saab cabrio e girammo a Milano per tutta la notte. Quando i tifosi ci riconoscevano al semaforo, mollavano le loro auto e salivano a bordo con noi. Non ho più ritrovato la capotta bianca ma non mi sono mai lamentato: ne valeva assolutamente la pena.

Com’è stato vestire la maglia della Nazionale?
Mi ha fatto tornare bambino. Ricordo una partita dell’Italia con doppietta di Graziani e noi ragazzini di Montebelluna tutti al campetto a cercare di imitarlo. Mi è capitato di pensare a questo quando mi sono ritrovato a indossare quella maglia che non mi sarei mai aspettato di meritare.

La gioia del gol è tra le più intense che un uomo possa provare ma anche una delle più effimere. Anche se io ricordo ancora adesso tutti i gol che ha fatto Serena...
Vorresti che durasse sempre e invece dura pochi secondi. Inebrianti. E quando smetti di giocare è dura abituarsi. Al mio corpo ci sono voluti tre anni per prendere confidenza con la mancanza di adrenalina domenicale.

Le leggeva le pagelle dei giornalisti la domenica?
Come no, specie quelle di Gianni Brera su Repubblica. All’inizio mi segava sempre. Poi prese ad apprezzarmi. E una volta a San Siro ci fu un incontro particolare tra di noi. «Buongiorno signor Brera», dissi io. «Buongiorno signor Serena, mi può dare una mano a uscire da questa poltroncina?». Era rimasto intrappolato in quelle piccole postazioni della tribuna stampa e io lo feci alzare. Capitò altre volte.

Lo sa che lei è stato l’unico giocatore a segnare un gol nell’unica partita che la Nazionale abbia mai giocato al Menti?
Ricordo molto bene, Italia-Algeria 1-0. Entro nella ripresa e segno. Ma ho ancora un rammarico: sbagliai di testa il gol del 2-0. Me lo rimprovero ancora adesso.

A proposito di Vicenza, lei ebbe modo di giocare, in serie B, nel Milan di Giussy Farina. Che ricordi ha?
Mia mamma ha un ricordo straordinario, io un po’ meno. Rimase incantata quando Farina venne ad accoglierci. Avevo la gamba ingessata, lui fu gentile e rimase a parlare in dialetto veneto con lei per un bel po’.

Lei invece non ebbe una buona opinione?
No, per carità, mi divertii in quella stagione con Joe Jordan in attacco e Castagner in panchina. Ma fummo costretti a traslocare da Milanello perché Farina aveva fatto un contratto che permetteva al gestore di organizzare feste e matrimoni. Ci ritrovammo ad allenarci in mezzo a folle di sconosciuti. 

Tra i grandi campioni incontrati, qual è stato quello che l’ha impressionata di più?
Potrei dire Platini, Baggio, Maradona, ed è ovvio. Ma la lezione più grande me la diede Zico a Udine. Giocavo col Torino, stavamo vincendo e io continuavo a sbraitare contro il mio compagno Schachner che quella domenica non ne imbroccava una. Zico si avvicinò e mi disse: «Guarda che così fai peggio, devi aiutare il tuo compagno, non attaccarlo». Una lezione che non ho più dimenticato.

Pieraldo Dalle Carbonare a fine carriera tentò di portarla al Vicenza. Perché rifiutò?
Mi aveva offerto un bel contratto, tanto che mio padre mi disse che ero pazzo a rifiutare. Ma avevo un ginocchio che si gonfiava e in serie B i giovani mi avrebbero mangiato vivo. Ma mi sarebbe piaciuto giocare al Menti. Da commentatore ho ancora negli occhi la partita giocata e vinta dal Vicenza di Guidolin contro il Chelsea. Ricordo che all’uscita dello stadio incrociai Corradini, mio ex compagno al Torino: restammo mezz’ora estasiati a parlare di quello spettacolo. 

Marino Smiderle

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