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«La prima svolta con Ciccolo, ma nel cuore ho De Angelis»

Giuseppe e Luca Campedelli presentano «1929 Chievo Verona - Una storia di passione» BOLDRINI/CHIEVO«Peppino» Campedelli premiato, nel 2016, vicino a Moro e Perrotta
Giuseppe e Luca Campedelli presentano «1929 Chievo Verona - Una storia di passione» BOLDRINI/CHIEVO«Peppino» Campedelli premiato, nel 2016, vicino a Moro e Perrotta
Giuseppe e Luca Campedelli presentano «1929 Chievo Verona - Una storia di passione» BOLDRINI/CHIEVO«Peppino» Campedelli premiato, nel 2016, vicino a Moro e Perrotta
Giuseppe e Luca Campedelli presentano «1929 Chievo Verona - Una storia di passione» BOLDRINI/CHIEVO«Peppino» Campedelli premiato, nel 2016, vicino a Moro e Perrotta

Le bombe che nel 1944 distrussero Forte Chievo avevano creato un’ampia area. Aveva sette anni Giuseppe Campedelli quando la terra gli tremò sotto i piedi, dieci quando tutti i sabati e le domeniche si univa alla gente del quartiere che in quello spiazzo aveva immaginato già un campo da calcio. «Quel che ci voleva per i ragazzi di Chievo che allora giocherellavano a Parona. Delimitato perfettamente dalla ferrovia e dal canale di Bionde. Davo una mano a spostare i sassi. E a custodire quei pochi ciuffi d’erba rimasti, una fortuna in mezzo a tante macerie», il ricordo conservato nella memoria di ferro di Campedelli. Fratello di Gigi che dal ’92 non c’è più e nipote di Luca che da 28 anni regge il Chievo appoggiandosi sempre alla saggezza di suo zio. Decisivo nei primi veri passi verso l’alto, strategico più avanti nel formare le basi su cui poggia oggi il settore giovanile. Pieno di ragazzi anche stranieri mentre ai suoi tempi, vedi la stagione ’50-’51, «l’unico “straniero” del Chievo era Cordioli che veniva dalla Croce Bianca». Campedelli, il personaggio chiave della prima scalata? «Nicola Ciccolo. Arrivò nel 1973, era stato un grande calciatore e da noi venne col doppio ruolo. Allenava e giocava. Eravamo in Promozione, quindi in Interregionale. Ci trasmise grande mentalità. A lui interessava vincere». L’allenatore a cui è più legato? «Carlo De Angelis, non solo perché ha portato il Chievo in C2 ma soprattutto perché dai suoi ragazzi pretendeva educazione e disciplina. Com’era nella nostra filosofia. Qualche ragazzo l’abbiamo anche mandato via perché magari aveva l’orecchino o i capelli lunghi. Uno di loro, Alberto Ruzzene, lo rividi qualche anno fa. Mi ringraziò, dicendomi che avevamo ragione noi. Le giornate di squalifica prese per responsabilità diverse da normali falli di gioco noi le raddoppiavamo. Condotta che ci ha sempre premiato». I contratti di allora? «Un’infinità. Trascorsi delle ore alla sede dell’Inail dove lavorava Di Brino, all’epoca factotum del Castelmassa, per prendere Giorgio Fasoli. O quella volta, nel 1976, che vendemmo Gregorotti all’Abano. Ogni contratto è una storia diversa. Quando una stretta di mano valeva più di una firma». La più grande qualità che aveva suo fratello Gigi? «Aveva tutto, specialmente un alto grado di intelligenza imprenditoriale. Era moderno già allora, i fatti l’avrebbero confermato. La traccia del Chievo di oggi è ancora la sua». Luca cos’ha preso dal papà? «La caparbietà, il voler andare sempre fino in fondo a tutto quel che fa». Il giocatore di cui è stato più innamorato? «Gianluca Rigoni, veniva da Rovereto. Per certe movenze mi ricordava Rivera». E fra quelli della Serie A? «Facile andare da Corini, ma naturalmente non c’era solo lui. Penso solo al valore di Corradi e Marazzina, oltre al fatto che insieme stavano benissimo». I due che firmarono la vittoria di San Siro contro l’Inter... «Fu una notte splendida, ma francamente io San Siro lo ricordo soprattutto per un’altra partita». Quale? «Quando il Milan, sempre nel 2001, vinse una gara che avremmo meritato di vincere noi se non fosse stato annullato un gol regolare di Federico Cossato, se ci avessero dato un rigore solare per il mani di Laursen e se non avessero fischiato quello segnato da Shevchenko che non c’era. L’arbitro Cesari ammise poi di aver sbagliato. Ormai però era troppo tardi». Il migliore del Chievo di oggi? «Fabbro già al primo impatto, ma mi piacciono molto pure Mogos e Semper». Quello che l’ha divertita di più? «Tanti, ma soprattutto Luciano. Perché ogni sua accelerazione era una vampata che accendeva la partita. E poi era uno che dava sempre tutto». La stagione indimenticabile? «La prima di Serie A, quella dei 54 punti e del quinto posto. Il Milan con uno solo in più andò in Champions». Lo scudetto della Primavera? «Qualcosa di straordinario, una gioia indescrivibile. Ovviamente ero a Rimini con la squadra. Bellissimo, come il titolo italiano che vincemmo con la Juniores nel 1986 a Viareggio». Consigli a suo nipote Luca? «Gli ho sempre raccomandato di guardare prima di tutto all’interesse del Chievo. Mi ha ascoltato». Fra gli allenatori del Chievo del passato dove lo posiziona Aglietti? «È nei primi tre. Metto Malesani e Delneri alla pari, poi viene lui. Mi piace come la squadra sa riempire il campo. La persona giusta al momento giusto». Il più grande rimpianto? «La retrocessione del 2007 a Bologna. La sofferenza più atroce. Bastava un pari, finimmo in B. In alcune scelte Delneri non fu proprio perfetto ma l’anno dopo tornammo in A dove, non ce lo dimentichiamo, il Chievo è stato per 17 campionati. Difficile pretendere di più».

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