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In 9mila all'anfiteatro

«Rivoluzione» Mannarino, in Arena un grande rito tribale: inno all'amore e alla donna

Insieme alla sua strepitosa band ha chiuso a Verona il tour tra luoghi magici della Penisola con un mix di forza e poesia
Mannarino chiude il tour in Arena
Mannarino chiude il tour in Arena
Mannarino in Arena

Un inno alla vita, all’amore e alla donna. Un rito tribale che chiama la rivoluzione «partendo da sé stessi». Mannarino infiamma l’Arena con due ore di una musica che parla al cuore e che cerca la strada per abbattere le barriere, per far saltare gli stereotipi e per annullare le violenze.

Il cantautore romano chiude il suo tour lungo la Penisola con un grande show all’anfiteatro (qui l'intervista), evento rimandato per due anni causa Covid, e lo fa compresso tra l’eccitazione dell’evento e la malinconia di qualcosa di magico che si sta per concludere. 

Trucco tribale e una band di 9 musicisti strepitosi

Trucco tribale, con due lacrime bianche ai lati degli occhi e un terzo occhio sulla fronte, Mannarino è sul palco di nero vestito, ma abbracciato dai colori di una band strepitosa: nove musicisti talentuosi ed eclettici che suonano strumenti provenienti da ogni parte del globo. Si tratta di Alessandro Chimienti ed Emanuele Triglia (alle chitarre e al basso), Seby Burgio (alle tastiere e synth), Puccio Panettieri e Mauro Refosco (alla batteria e alle percussioni) e Simone Alessandrini ai fiati e altri strumenti. Con loro tre coriste - Lavinia Mancusi, Simona Sciacca, Gioia Persichetti - che, vestite come splendidi serpenti brillanti, trasformano ogni brano in un potente rituale fatto voci pazzesche, tamburi e violino. 

In scaletta un mix di fuoco e poesia 

La scaletta propone ai 9mila presenti, (riempita anche la buca dell’orchestra con alcune file di sedie), quasi tutti i brani del suo ultimo album «V», ma anche i tanti successi dai dischi precedenti come Apriti Cielo, Maddalena, Marylou, Serenata Lacrimosa, l’Arca di Noè e pezzi che non possono mancare presi dal suo album d’esordio come Scetate Vajo, Me So’ ’Mbriacato, Bar della Rabbia, Tevere Grand Hotel. Forse stanco di cantarli, lascia fuori alcuni suoi cavalli di battaglia, come Gandhi, Babalù e Le Rane, facendo piangere qualche bimbo. 

Ma il concerto non perde mai di tensione, se non forse per chi non è troppo amante dell’elettronica quando dopo «Lei» lascia un lungo spazio ai sintetizzatori per un break dal sapore tribale.  Giusto il tempo di riprendere fiato e si riparte a tutto ritmo. Con Ballabylonia riprende quota e si fonde sul finale con le tre voci femminili impegnate in un brano medievale dissacrante «In taberna quando sumus» presente nei Carmina Burana. 

La dea madre e la guerriera: un grido al mondo per le donne

Il tema della donna è centrale nel concerto di Mannarino, non solo per l’incredibile forza delle tre donne sul palco, ma per le storie raccontate nelle sue canzoni che parlano di madri, di prostitute e di guerriere. Storie raccontate con ardore e coraggio. 
Mannarino e gli uomini della band indietreggiano sul palco e fermi in piedi, in ossequio, ammirano le tre donne che con i tamburi lanciano un dirompente «grido di battaglia» riproponendo «Un violador en tu camino» la canzone diventata virale, nel 2019, dopo il flash mob delle donne cilene contro l’impunità degli stupratori. Una performance che si chiude con i dieci artisti a pugno alzato. 

Mannarino saluta l’Arena con la dolcezza di Paura e fa cantare tutti con Statte Zitta e Vivere la vita. L’inno si ferma, ma non il suo messaggio: «Cambiando strada puoi cambiare idee/ E con le idee si cambia il mondo/Ma il mondo non cambia spesso/Allora la tua vera rivoluzione sarà cambiare te stesso».

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Giorgia Cozzolino
giorgia.cozzolino@larena.it

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