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Una carriera lunga 66 anni

Gelmetti: «Il mio posto del cuore, Tombetta fu il mio primo teatro»

Tiziano Gelmetti in «Uno sguardo dal ponte»
Tiziano Gelmetti in «Uno sguardo dal ponte»
Tiziano Gelmetti in «Uno sguardo dal ponte»
Tiziano Gelmetti in «Uno sguardo dal ponte»

Il teatro, il canto, le tournée, i recital. È una vita sul palcoscenico, ma anche nel mondo della poesia e della letteratura, quella di Tiziano Gelmetti, che proprio questo autunno ha ricevuto un premio alla carriera da parte del Circolo Culturale Tombetta. Il luogo che lo ha visto nascere e diventare un artista eclettico, un attore che sa emozionare il pubblico veronese. 

 

Cosa rappresenta questo riconoscimento, arrivato in un anno così particolare? Il premio è un ulteriore legame con un teatro, quello di Santa Teresa, che mi è rimasto dentro: fa parte dei miei ricordi di ragazzo. Ho iniziato lì nel 1954, e avevo 14 anni. A quell’epoca quasi ogni parrocchia aveva la sua filodrammatica. Ricordo tra i miei primi registi Giuseppe Frustaci, Enzo Mantoan, Renato Biroli. La compagnia di Santa Teresa era tra le più quotate: basti pensare a lavori come «Poveri davanti a Dio» di Cesare Giulio Viola, o «Miracolo» di Nicola Manzari. Sono stato con loro quasi quattro anni, finché mi sono scoperto cantante cn Sergio Ravazzin. E così è iniziata la stagione dei concerti. Per diversi anni ho girato per il Veneto, prima con l’orchestra ritmica I cadetti e poi con il complesso Spring, di musicisti più esperti. Negli anni della Liverpool italiana, in cui si puntava soprattutto sul repertorio dei Beatles, con tre chitarre e una batteria, noi dei Cadetti eravamo cinque amici uniti in un’orchestra che eseguiva i balli sudamericani con tromba, chitarra hawaiana, batteria, tastiera e contrabbasso.

 

A cosa è dovuto, quindi, il ritorno al teatro? Fu essenziale l’incontro con Giorgio Totola, con il quale avevo partecipato alla Compagnia Spettacoli Musicali Città di Veron. Al Nuovo facevamo anche quindici serate di fila, con uno spettacolo di rivista in cui ci si prendeva gioco di ciò che succedeva in città. Poi Totola mi ha invitato ad andare con lui mentre stava nascendo la Barcaccia. Erano i primi anni ‘70 e non mi sono più fermato.

 

Subito dopo il gruppo Teatro Perché e quindi il passaggio all’Estravagario, alla morte di Totola. Dell’Estravagario ho sempre apprezzato il coraggio di fare spettacoli capaci di spaziare dal teatro leggero a quello più impegnativo. Ricordo «Uno sguardo dal ponte» di Arthur Miller, lavoro classico complesso con cui ho ottenuto vari premi nazionali. Altra soddisfazione è arrivata con «Variazioni enigmatiche» di Éric-Emmanuel Schmitt. E poi ci sono spettacoli come «Bertoldo e Bertoldino», o «alera Paradiso».

 

Tra gli spettacoli più longevi c’è «Paese perduto», riproposto di recente in una veste nuova. Mi sono ispirato all’amicizia con Dino Coltro, col quale Giorgio Totola collaborò a lungo: la moglie di Dino mi raccontava che si chiudevano nel suo studio e stavano lì per ore. Così sono nate le prime edizioni di «Paese Perduto» che inizialmente era un recital, insieme al musicista Vittorio Bentivoglio. Abbiamo all’attivo circa 150 repliche.

 

Cosa rappresenta, oggi, il teatro amatoriale? Alcuni decenni fa l’impegno del teatro era quasi totalizzante. Oggi gli attori si dividono con molti altri impegni. E poi, dove mancano supporti economici bisogna fare i conti con la biglietteria, e spesso si opta per la leggerezza. •

Silvia Allegri

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