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L'intervista

Mannarino: «Giù la maschera, mostriamo umanità. Bella Ciao? È di chi ama l'Italia»

L'intervista all'artista che si esibisce in Arena il 28 settembre 2022
Mannarino
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Da un caicco di 27 metri ormeggiato in una baia dell’isola di Vulcano, al chiaro di una luna piena al rifugio Giberti, a 1.850 metri d’altezza. Un tour in luoghi magici che non poteva che concludersi all’Arena di Verona. Mannarino, il cantautore romano che macina tanti successi quanti i chilometri percorsi in giro per il mondo per realizzare i suoi album, approda all’anfiteatro di Verona dopo due anni di rinvii causa Covid. Un concerto, quello del 28 settembre, che si preannuncia come una serata memorabile, uno show studiato appositamente per Verona che sarà, al contempo, un distillato di tutto il doppio tour portato in giro per l’Italia durante l’estate.


Mannarino, lei è reduce da una tournée con due tipi di spettacoli: uno completamente acustico con soli tre musicisti e uno full band. Ma quello in Arena avrà qualcos’altro di speciale? 
«Di fatto ingloberà il tour e porterò delle novità inserendo altri pezzi del mio repertorio. Ho deciso di metterci cose nuove, ma non voglio svelare niente»
La sua musica ha risuonato in luoghi magici…
«Sono state tutte date incredibili, suonare con la luna piena a quasi duemila metri d’altezza o davanti all’isola di Vulcano su un caicco è stato bellissimo. Ogni serata è stata diversa, proprio quello che avevo in testa quando ho iniziato il tour: volevo che fosse un rituale collettivo, corale e fuori dalle regole. Emozionante poi la sfida di avere dieci elementi sul palco, di fare gli arrangiamenti non con le sequenze, ma suonando anche l’elettronica e i tamburi, in controtendenza rispetto a quello che va oggi per la maggiore. Il valore umano poi ha fatto il resto: il musicista è libero sul palco e ogni sera esce qualcosa di diverso. Ho lavorato con musicisti eccezionali e si è creato quel senso di fratellanza e di famiglia che desideravo».
E tutto questo si chiuderà in Arena?
«Sì e devo ammettere che pensando all’Arena c’è felicità e attesa per quel che sarà ma anche malinconia perché questo tour che giunge al termine. Abbiamo messo su un live veramente bello e più vado avanti e più mi diverto sul palco. Non abbiamo usato maxi schermi, ma solo questa statua: giochi psichedelici su una immagine atavica di una dea madre. Un’idea controcorrente che però ha funzionato». 
Ma lei in Arena ci è mai stato?
«Io sono emozionato di venire in Arena perché è uno scenario incredibile che ho vissuto solo da spettatore all’opera. In Arena ho visto la Carmen e il Barbiere di Siviglia».
Il suo ultimo disco «V» è stato registrato tra New York, Los Angeles, Città del Messico, Rio De Janeiro, l’Amazzonia e l’Italia con il coinvolgimento di produttori internazionali. Un lavoro «epico»...
«Ho fatto due anni in giro per il mondo a registrare e a conoscere produttori e musicisti, poi quando sono tornato a Roma, che il disco doveva essere chiuso, è arrivata la pandemia e quindi ho riaperto tutto e reinterpretato tutto lavorando con Iacopo Brail Sinigaglia. Quindi sono entrate tante energie poi rifiltrate da quei mesi di clausura. In uno studio a strade vuote, ho potuto rielaborare e capire meglio quello che avevo in testa».
La dea madre è l’icona del concerto e dell’ultimo album. Possiamo definirlo il suo lavoro più «politico» visti i molti messaggi che lancia? 
«Sì è vero, ma il messaggio centrale è quello di far cadere le maschere, non proteggersi dietro a ciò che culturalmente ci nasconde. Nel senso prendersi la responsabilità della propria umanità e fare la propria ricerca. Come diceva Kant il “cielo stellato sopra di noi, la legge morale dentro di noi”. È questo è quello che dice il disco».
Ma parla anche del rapporto con la natura, della donna...
Il disco parla di una decolonizzazione del pensiero, soprattutto dell’uomo, maschio. Perché siamo stati abituati all’idea della terra e delle donne come terreno di conquista, la mentalità del colonizzatore». 
E della paura...
«Nella giungla non ti perdi ma ti trovi, entri in un mondo caotico, ma non avere paura di perderti perché in realtà ti trovi. E io in periodo di elezioni, quello che avrei voluto vedere scritto sui manifesti era questo. Il problema è che la paura è un grande strumento di controllo e di potere, si deve avere paura di un Papa che non è abbastanza cattolico, paura di chi viene da fuori, del gay perché mina la famiglia tradizionale, del migrante che ti ruba il lavoro... E quindi c’è un proliferare di rabbia e, visto che il concerto di Verona arriva tre giorni dopo le elezioni io userei questo claim».
A proposito di politica, ha seguito la polemica su Laura Pausini che si è rifiutata di intonare Bella Ciao
«Bella Ciao non è la canzone del bolscevico comunista che mangia bambini ma è la canzone della resistenza contro la dittatura nazifascista in Italia e la repubblica italiana è fondata sul valore dell’antifascismo. Un’italiana che crede nella nazione come lei dice, che ama l’Italia e la rappresenta all’estero, deve essere orgogliosa di cantarla. Io penso che si tratti o di ignoranza o di convenienza. Non è una canzone che ha un calore politico, non deve averlo. Bella Ciao è forse più rappresentativo della Repubblica italiana dell’inno di Mameli». 
Siamo abituati a considerare la musica nordamericana come predominante, ma i suoi lavori sono influenzati dalla cultura sudamericana... 
«Ci sono dei poeti eccelsi del cantautorato brasiliano che sono ai livelli di Bob Dylan ma noi non li conosciamo per via di questa egemonia culturale che esporta solo determinata musica. Anche un italiano fatica all’estero». 

Giorgia Cozzolino

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