<img height="1" width="1" style="display:none" src="https://www.facebook.com/tr?id=336576148106696&amp;ev=PageView&amp;noscript=1">

«Love story», il cult melò indigesto ai critici ufficiali

«Amare significa non dover mai dire mi dispiace». Concetto profondo o pretenziosa ruffianata? La disputa su questa famosa battuta è la stessa che da, mezzo secolo, circonda il film da cui proviene: «Love Story» di Arthur Hiller, proiettato per la prima volta a New York il 16 dicembre 1970 e destinato a diventare il maggior successo della Paramount Pictures sino ad allora. In tre giorni coprì i costi di produzione e rimase per quindici settimane in testa al botteghino americano, arrivando a incassare oltre 136 milioni di dollari. La love story del titolo è quella che unisce il ricco rampollo wasp Oliver Barrett (Ryan O’Neal), matricola di Harvard e giocatore di hockey, e la studentessa italo-americana Jennifer Cavalleri (Ali MacGraw), la quale, pur essendo figlia di un modesto pasticciere, non si lascia mettere i piedi in testa da nessuno. Come da copione, i due bisticciano, si piacciono, si innamorano e si sposano, . Tutto bene fino a quando Jennifer scopre di avere una forma di leucemia fulminante. Nessuno spoiler, dato che la pellicola (sceneggiata da Erich Segal) inizia con uno sconsolato Oliver, seduto a Central Park e intento a chiedersi: «Che cosa si può dire di una ragazza morta a 25 anni? Che era bella. Che era intelligente. Che amava Mozart e Bach. E i Beatles. E me...» Sebbene il pubblico ne abbia fatto un cult movie e occupi il nono posto nella lista stilata dall’American Film Institute per classificare i cento migliori film sentimentali statunitensi, «Love Story» continua a rimanere uno dei film più indigesti alla critica. Basta aprire il Morandini, per leggere giudizi lapidari del tipo: «Uno strappalacrime in linea con la tradizione hollywoodiana del boy-meets-girl, se non fosse per qualche parolaccia nel dialogo». Oltre a trasformare in star i due giovani protagonisti, «Love Story» ottenne sette nomination agli Oscar, inclusa quella per il miglior film (premio poi andato a «Patton, generale d’acciaio»), ma si portò a casa solo la statuetta per la colonna sonora composta da Francis Lai.

A.B.

Suggerimenti