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Gene Tierney, la diva fragile perseguitata da una sorte crudele

Gene Tierney nel film «Femmina folle» di John M. Stahl
Gene Tierney nel film «Femmina folle» di John M. Stahl
Gene Tierney nel film «Femmina folle» di John M. Stahl
Gene Tierney nel film «Femmina folle» di John M. Stahl

Quando, nel 2016, Lab80 ha distribuito nei cinema italiani una rassegna dedicata a Gene Tierney (proposta anche dal Verona Film Festival) l’ha chiamata «La diva fragile». Difatti è questa la qualifica che tuttora si associa alla Tierney, attrice dal fascino quasi ultraterreno («Ella infrange ogni frontiera tra sogno e realtà» scrisse di lei Marceau Devillers), ma perseguitata da un destino crudele. Nata cent’anni fa a Brooklyn (il 19 novembre 1920) e spentasi a Houston il 6 novembre 1991, Gene Eliza Tierney era destinata a un’esistenza agiata (la famiglia le aveva garantito un’educazione di alto livello, a base di scuole esclusive, studi in Svizzera e viaggi in Europa) se le luci della ribalta (di Broadway prima e di Hollywood poi) non l’avessero irresistibilmente attratta. Esordì al cinema nel western di Fritz Lang «Il vendicatore di Jess il bandito» (1940), ma quando udì la propria voce registrata ne rimase talmente sconvolta da diventare una fumatrice accanita pur di trasformare quel «fastidioso pigolio alla Minnie» in un timbro basso e caldo. Dopo una serie di ruoli da bellezza esotica (su tutti «I misteri di Shanghai» di Josef von Sternberg (1941), Gene raggiunse la consacrazione grazie alla commedia di Ernst Lubitsch «Il cielo può attendere» (1943) e al noir «Vertigine» (1944) di Otto Preminger, regista che la richiamò ne «Il segreto di una donna» (1949), «Sui marciapiedi» (1950) e «Tempesta su Washington» (1962). Anche Joseph L. Mankiewicz rimase ammaliato dalla Tierney (protagonista femminile dei suoi film «Il castello di Dragonwyck», 1946 e «Il fantasma e la signora Muir», 1947), ma fu John M. Stahl a procurarle l’unica nomination all’Oscar, facendone la spietata dark lady del melodramma-thriller «Femmina folle» (1945). Ma, se in pubblico la sua carriera volava, in privato la sua vita andava in pezzi. La grave disabilità della figlia Daria (causata dalla rosolia contratta in gravidanza), la fine del matrimonio con lo stilista Oleg Cassini e la sfortunata relazione con il principe Ali Khan (che, dopo averle promesso le nozze, la abbandonò senza troppi complimenti) fecero precipitare Gene in una depressione autodistruttiva culminata in un tentato suicidio. Dopo un lungo ricovero in clinica psichiatrica, si risposò con un petroliere texano e abbandonò Hollywood, raggiungendo così forse quella pace che per lei valeva più di ogni premio. • © RIPRODUZIONE RISERVATA

Angela Bosetto

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