Leggenda vera. A suo agio tra i giganti, tra i grandissimi del jazz. Uno dei pochi a poter dare del tu senza arrossire ai vari John Coltrane, Charlie Parker, Lester Young, Ornette Coleman, Sonny Rollins. Lassù, tra le stelle più brillanti, tra i padri nobili e le divinità eterne. Wayne Shorter, scomparso il 2 marzo scorso, è uno di quei musicisti che non si possono ignorare, capace di lasciare il segno sia come strumentista che come compositore, rivoluzionario nel senso più profondo del termine, animo nobile e spirito gentile; direttore dei Messengers di Art Blakey, spalla di Miles Davis in quella che molti considerano la band per antonomasia (tra i molti anche chi scrive), fondatore del fenomeno Weather Report, sperimentatore instancabile e cavaliere impavido fino alla fine. Gioia e giubilo dunque per il documentario in tre parti del regista Dorsay Alavi - tra i produttori anche Brad Pitt - distribuito in Italia da Amazon Prime (l’uscita ufficiale il 25 agosto, nel giorno in cui Shorter avrebbe compiuto 90 anni); «Zero Gravity» il titolo, che già proietta lo sguardo verso l’infinito e oltre, verso le galassie e i mondi lontani ai quali Shorter ha sempre puntato.
Dai primi passi all’apoteosi
Si parte dagli inizi, dall’infanzia nella sua Newark («The Newark Flash» il primo soprannome del giovane Wayne, che già stupiva per la velocità del fraseggio); si parte dai giorni in cui, in duo con il fratello Alan alias Dr. Strange (trombettista destinato a una discreta fama), si esibisce come Mr. Weird. Dottor strano e mister strambo. Mica male come coppia. Poi il grande salto verso la scena di New York, con la chiamata di Art Blakey che vale come definitiva consacrazione e il passaggio alla corte di Miles che gli schiude le porte del mito. Sullo sfondo (ma nemmeno troppo) l’incredibile serie di dischi pubblicati sotto l’egida della Blue Note («Speak no Evil», «JuJu», «Night Dreamer», «Adam’s Apple» e fratelli, ma anche «Spring» di Tony Williams, «Search for the New Land» di Lee Morgan e «Some Other Stuff» di Grachan Moncur III). Quindi la svolta elettrica di Davis, benedetta anche dagli assoli di Shorter al soprano in «A Silent Way», e il varo dei Weather Report con Joe Zawinul e (in un secondo momento) Jaco Pastorius; preludio a un’ultima parte di carriera segnata dalle tante collaborazioni (resta quella con Joni Mitchell) e, più in là, da un’altra band cardine: il super quartetto completato da Brian Blade, John Patitucci e Danilo Pérez.
Oltre il mito e la musica
Il documentario si concentra però soprattutto sull’uomo Wayne Shorter, inciampando è vero in qualche caduta di stile di troppo, ma riuscendo nonostante tutto a restituire l’unicità di una vita tanto sfortunata quanto illuminata da una visione compassionevole e serena dello stare al mondo, del relazionarsi con gli altri, del cercare la verità. Shorter il filosofo, il pensatore: voce inimitabile, genio assoluto, essere umano speciale.