Nella lunga estate calda dei blockbuster e delle produzioni milionarie, tra sequel altisonanti, sorprese clamorose e supereroi a catinelle, in attesa della «Barbie» di Greta Gerwig (al cinema da domani) e del Christopher Nolan di «Oppenheimer» (uscirà il 23 agosto ma già sono arrivate investiture entusiastiche, a partire da quella di Paul Schrader), c’è un piccolo grande film da non perdere e da tenere in debito conto in vista delle liste di fine anno. Di «Ritorno a Seoul» di Davy Chou in realtà avevamo già parlato qualche settimana fa, segnalandone l’approdo nelle nostre sale dopo il passaggio da Cannes e dopo che Mubi e I Wonder si erano mosse con largo anticipo per garantirne la distribuzione; approfondiamo il discorso volentieri a pochi giorni dalla prima digitale, con la già citata Mubi che ha deciso di puntare forte su una delle cose migliori viste in questa prima parte di 2023. Da Francia alla Corea Francese la produzione e il Dna, di origini cambogiane il regista, coreana l’ambientazione. La Seoul del titolo è quella della venticinquenne Freddie, adottata in tenerissima età e finalmente decisa, più per caso che per vera volontà, a mettersi sulle tracce dei genitori naturali. Un ritorno a «casa» che è anche, se non soprattutto, un percorso accidentato di riappropriazione dell’identità perduta (o mai avuta), un incontro ravvicinato e poco amichevole con il Paese nel quale è nata e del quale non sa nulla. Difficile sentirsi vicina affettivamente al padre, che ancora porta come una croce il trauma di averla abbandonata ma che nel frattempo si è fatto una seconda famiglia; impossibile accettare il fatto che la madre non la voglia rivedere nonostante i ripetuti inviti a incontrarla. Da qui una profonda crisi e un dolore sordo che la spingono verso una sorta di perdizione. Due anni dopo ritroviamo Freddie totalmente cambiata, cittadina disinvolta del lato scuro di Seoul, la metropoli che l’aveva respinta, guerriera della notte in giacca di pelle ma sempre incagliata emotivamente nelle questioni famigliari. Nuovo stacco, di anni ne passano altri tre e finalmente le lacrime versate tra le braccia della madre ci accompagnano verso una chiusura più enigmatica che risolutiva; prima di un ultimo incontro con la Freddie del presente che sa di resa all’impossibilità di autodefinirsi con esattezza, di ricomporre il puzzle di un io frantumato, anche se in qualche modo qualcosa di simile alla pace è subentrato al caos interiore e sanguinante della protagonista. Non ci offre risposte, Davy Chou, che è magistrale nell’adeguare i toni della messa in scena a quelli delle numerose Freddie che conosciamo: la quasi turista francese, la ragazzina sola, la vendicativa regina delle ore piccole e del dancefloor, la donna in carriera, l’esploratrice. Ci si perde e ci si ritrova con l’eroina di «Ritorno a Seoul», ci si sente parte attiva del dramma, dello sforzo di dare un senso all’esistenza. Cinema dal volto umano, al quale abbandonarsi con fiducia.