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La recensione

«Rapito», tra fede e storia Bellocchio torna a parlare

Il protagonista Enea Sala
Il protagonista Enea Sala
Il protagonista Enea Sala
Il protagonista Enea Sala

Come i grandi maestri, come il sommo Kubrick, tanto per fare un nome, lo splendido ottantenne Marco Bellocchio ha il controllo totale, assoluto di un mezzo espressivo complesso e polisemico come il cinema. E il suo ultimo film, «Rapito», storia del bambino Edgardo Mortara, fatto rapire dal pontefice Pio IX nel 1858, a Bologna, in quanto battezzato da una domestica all’insaputa della famiglia di fede ebraica, ne è la più convincente prova. E non ci sarebbe neanche bisogno che Bellocchio dichiari che «Rapito» «è un film, non è né un libro di storia o di filosofia, né una tesi ideologica»: lo si vede, lo si capisce, lo si sente; è un’evidenza che passa attraverso gli occhi, la mente, il cuore, le orecchie. È «solo» un film, «solo» cinema, ma come cinema può essere e comprendere tutto. «Rapito» è un film d’inaudita potenza e drammaticità, capace di atterrire e di commuovere fino alle lacrime, di catturare lo spettatore e di condurlo in tensione verso la fine della vicenda da uno snodo narrativo all’altro, sfruttando alla perfezione le risorse di generi cinematografici come il film d’azione in costume e la rappresentazione di gruppi familiari in interni borghesi. E nella messa in scena della famiglia benestante di Momolo Mortara, il padre di Edgardo, che aveva sette fratelli, sorge il sospetto che Marco Bellocchio si sia ricordato della propria di famiglia. Il cuore dialettico del film è costituito dal confronto, tradotto sovente in un serrato gioco di montaggio alternato, tra le due religioni: quella cattolica, la religione del potere papale che era anche deciso potere politico, e quella minoritaria, ebraica, oppressa e costretta a umiliarsi, e forse per questo più vera e sentita. L’aspetto più impressionante di questo film bellissimo è come tutta la forza del genio di Bellocchio sia dispiegata al fine di comprendere e di rappresentare, non di giudicare. Il maestro piacentino si concede solo un paio di incantevoli sogni, uno dei due illuminato dal suo gusto per l’utopia, proprio come aveva fatto in «Esterno notte» immaginando la liberazione di Moro. Il resto è cinema in costume, una specie di «Barry Lyndon» ai tempi del Papa Re, sul quale incombe la breccia di Porta Pia.•. F.Bon. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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