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Il focus

La malinconica meraviglia in formato Wes Anderson

Con «Asteroid City» il ritorno in sala dopo «The French Dispatch», arrivano su Netflix invece i quattro corti tratti dai racconti dell'amato Roald Dahl: «La meravigliosa storia di Henry Sugar», «Il cigno», «Veleno» e «Il derattizzatore»
La stella Benedict Cumberbatch, protagonista di «The Wonderful Story of Henry Sugar»
La stella Benedict Cumberbatch, protagonista di «The Wonderful Story of Henry Sugar»
La stella Benedict Cumberbatch, protagonista di «The Wonderful Story of Henry Sugar»
La stella Benedict Cumberbatch, protagonista di «The Wonderful Story of Henry Sugar»

Doppia dose di Wes Anderson nel giro di una settimana. Prima lo sbarco in sala di «Asteroid City», l’ultimo film del signor Tenenbaum (uscito a giugno negli Stati Uniti ma da noi arrivato solo a fine settembre), poi, alla spicciolata, l’approdo su Netflix dei quattro cortometraggi tratti dai racconti di Roald Dahl, che già aveva ispirato il bellissimo «Fantastic Mr. Fox»: «La meravigliosa storia di Henry Sugar», «Il cigno», «Veleno» e «Il derattizzatore». Gioia e giubilo. Anche se di «Asteroid City» abbiamo già parlato e il primo giudizio, confermato da una seconda visione, non è stato certo dei più positivi: un Wes Anderson in tono minore, troppo fragile, con situazioni e personaggi accatastati alla rinfusa, in un’estenuante girandola di volti celebri, e con il plot che non sa bene dove andare per accontentare i capricci estetici dell’uomo dietro alla macchina da presa. Un delizioso pasticcio. In scia a quell’altro delizioso pasticcio che era stato «The French Dispatch», esempio ancora più calzante di accumulo compulsivo e disordinato di stelle, stelline e diafani pretesti.

L’apoteosi del carino inutile. A confermare l’impressione, avuta fin dai tempi (non sospetti) di «Grand Budapest Hotel» (e un po’ anche guardando con attenzione al dark side di «Moonrise Kingdom»), che il cinema in senso stretto, che giocoforza deve fare i conti con le regole imposte dal formato, con la narrazione, con una trama e uno sviluppo, con delle presenze credibili all’interno delle inquadrature, con una durata che superi una certa soglia, non sia più il luogo in cui il nostro pifferaio magico preferito si sente davvero a casa.

Molto meglio l’animazione (vedi «L’isola dei cani», altro gioiellino in stop motion); oppure qualcosa di più agile e meno vincolante, una zona franca, meta-narrativa, all’interno della quale scatenare tutto il potenziale creativo a disposizione. Non a caso i quattro corti distribuiti in esclusiva da Netflix ci restituiscono il vero Wes Anderson. La penna, l’abbiamo già detto, è quella geniale di Roald Dahl, il cui tocco infantile e sinistramente inquietante, con venature dark e una fatale attrazione per il gotico dickensiano, sembra combaciare alla perfezione con la poetica della malinconica meraviglia di uno dei registi più riconoscibili degli ultimi trent’anni. Finalmente libero di esagerare, di essere quello che vuole essere.

Nei 37 minuti di «Heny Sugar», in particolare, Wes Anderson si spinge là dove non si era mai spinto prima, dando sfogo a tutta la propria immaginazione, a tutto il proprio estro. Il testimone del narratore passa di mano addirittura quattro volte, in un esaltante, oltre che impeccabile, gioco di scatole cinesi; ma anche a livello di messa in scena gli azzardi e i virtuosismi - tanti, tantissimi, e mai così ingegnosi, incalzanti e sorprendenti - funzionano che è un piacere, facendo leva su quello stesso effetto-teatro che in «Asteroid City» infastidisce e costringe. E forse anche di destinazione finale: non la sala, con la sua indolenza rituale, con i suoi passaggi obbligati, ma l’immediatezza dello streaming. Pensato, prodotto, girato e distribuito. Il resto ce lo mettono il cast - Benedict Cumberbatch, Ralph Fiennes, Dev Patel, Ben Kingsley -, la capacità di arrivare al cuore filosofico del racconto (imparare a vedere senza usare gli occhi: una lezione di vita e di letteratura che diventa una lezione di cinema) e il già citato Roald Dahl, che anche nei più brevi «Il cigno», «Veleno» e «Il derattizzatore» offre la solida base d’appoggio sulla quale costruire alcune delle cose migliori dell’intera carriera del texano dal caschetto biondo, sicuro e profondo come non lo vedevamo da tempo. Bentornato signor Anderson, non sa con quanta impazienza la stavamo aspettando.

Luca Canini
letterboxd.com/RivBea79/

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