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In sala

«Io capitano», in viaggio lungo la rotta di Garrone

Dal Senegal alle coste della Sicilia: il film premiato a Venezia con il Leone d'Argento racconta il dramma dell'immigrazione

Se i personaggi alla Enzo Ferrari dovrebbero essere interpretati da attori italiani e non da un Adam Driver qualunque (Favino dixit sul red carpet del Lido), che ci fa un regista italiano dietro alla macchina da presa per un film ambientato in Africa che racconta il viaggio della speranza di due ragazzi senegalesi? La domanda è mal posta, certo. Ma nemmeno troppo se dall’altra parte del microfono c’è Matteo Garrone, sacrosanto Leone d’Argento nell’edizione numero 80 della Mostra del Cinema, quella del ritorno a livelli di eccellenza dopo il passaggio a vuoto di «Pinocchio» (era il 2019). Ma nemmeno troppo nel senso che «Io capitano», presentato a Venezia e in sala ormai da una settimana, ha il difetto di fabbrica di essere figlio di un punto di vista straniero, lontano, dall’esterno; uno sguardo sul fenomeno globale dell’immigrazione che sembra più affascinato dal contesto, dai colori, dai volti (meravigliosi), dalle musiche (straordinarie, soprattutto quando virano verso il desert blues dei Tuareg) che dalla realtà (anche per fisiologica mancanza di dimestichezza, viene da pensare), più dall’estetica che dalla sostanza del dramma.

Atto primo e atto secondo

È evidente nella prima parte del film, durante la quale il regista ci tiene a precisare che la decisione di partire dei due giovani protagonisti, Seydou e Moussa, non deriva tanto dalla necessità di sfuggire alla miseria quanto dalla ferma volontà di inseguire un sogno, qualcosa di più grande, un riscatto personale (il Senegal della madre e delle sorelle di Seydou, d’altro canto, non sembra una casa poi così terribile da abitare). Ma si nota soprattutto nelle sequenze del viaggio, quelle dell’orrore, con Garrone che pare non avere la freddezza e la lucidità necessarie per arrivare al terribile dunque, sempre pronto a offrire allo spettatore una via di fuga, una rassicurazione sull’intrinseca bontà del creato e di chi lo abita dopo avergli fatto intravedere il disumano.

Quello che è nascosto

(Attenzione: pericolo spoiler) Seydou viene torturato ma noi non lo vediamo; a Moussa sparano in una gamba ma succede in un’altra linea temporale; nel carcere libico si praticano violenze e abusi ma tutto resta sullo sfondo; l’Italia non è di sicuro il Paese che immaginano i due giovani, ma Garrone si ferma a una manciata di miglia dalle coste della Sicilia, lasciando intatte gioia e illusioni per il felice approdo. E quando la presenza del dolore diventa troppo tangibile, il regista non esita a giocare il jolly dell’astrazione, con il volo immaginifico dell’anziana agonizzante nel deserto e l’angelo della misericordia che porta in sogno a Seydou la visione della madre. Vero, certi passaggi fanno malissimo, e non c’è dubbio che siano meritate le lodi per il coraggio di portare sullo schermo una storia necessaria, un’odissea contemporanea; così come gli elogi per la regia elegante, umanissima, per la preziosissima fotografia, per il gusto impeccabile nella composizione delle singole inquadrature. Tutto giusto, per carità. Ma «Io capitano» resta un’opera indecisa, a tratti irrisolta, che sa cosa vuole spiegare, con cuore, con passione, con tanta onestà, ma non sa bene come farlo, lacerata tra la tentazione di spingere lo sguardo fino in fondo al baratro dell’indicibile e l’istinto (o la volontà) di proteggere i protagonisti del racconto e chi li sta osservando in sala.

Che cosa resta alla fine?

Il risultato sembra una favola più che un romanzo di denuncia, un racconto di avventure, una parabola a rischio minimo nella quale il male è sempre velato, discosto, a distanza di sicurezza dalla coscienza di noi occhi occidentali. La promessa finale di Seydou, nessuno morirà su questa barca, è la stessa di Garrone, che si impegna a tenere al sicuro i suoi eroi ingenui e ogni singolo spettatore. Ammirevole per sincerità e per slancio, ma fatalmente inadeguata.

Luca Canini

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